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 2010  novembre 21 Domenica calendario

I DISPERATI DEL MARE E LA LOTTA QUOTIDIANA CONTRO IL PETROLIO

Tocca ora a David Chauvin, rampollo di un’ augusta famiglia di pescatori della Louisiana meridionale, mettersi al timone dell’ azienda omonima e della sua flottiglia di barche che da oltre mezzo secolo raccoglie quotidianamente nelle reti a strascico tonnellate di gamberi e di altri pregiati molluschi e crostacei, di cui è ricco il mare del Golfo del Messico. Uscito all’ alba, rientra a tarda sera alla guida del suo grosso camion-frigorifero dov’ è stipato il bottino della giornata. Sui quaranta, sposato con tre figli, David appartiene alla quarta generazione dei Chauvin, anch’ essa, come le precedenti, dedita alla pesca. «Le nostre radici - dice senza enfasi - sono nell’ acqua». Suo padre, Anthony, lo ha visto sempre in barca; e i suoi ricordi d’ infanzia sono dominati dalla figura del grande nonno capitano della pacifica flotta. Quest’ ultimo aveva avuto cinque figlie, che hanno imparato a fare le reti prima che a cucinare. I loro nomi sono tracciati, con vernice bianca, sui ponti dei tre pescherecci della «Mariah Jade Shrimp Company», la ditta di famiglia. L’ esplosione, in aprile, della piattaforma Deepwater Horizon ha fatto riemergere nell’ animo dei pescatori locali le ansietà e le paure provate dai loro antenati quando, negli anni Quaranta, approdarono in Louisiana funzionari e tecnici delle grandi Compagnie petrolifere Usa per erigere una rete di pozzi al largo della costa. «Non furono certo i benvenuti - ricorda ora Anthony Chauvin - perché si temeva che le perforazioni e le conseguenti estrazioni del greggio inquinassero l’ acqua contaminando irrimediabilmente gamberi ed ostriche e l’ intero patrimonio ittico del Golfo». In realtà, la costruzione dei pozzi e degli impianti contribuì a migliorare le condizioni socio-economiche locali, grazie alla sopravvenuta intesa fra le due grandi industrie - quella del petrolio e quella del pesce - fino ad allora ritenute inconciliabili rivali. «A un certo punto - racconta Anthony - le torri di ferro delle piattaforme cominciarono a far parte del paesaggio come gli alberi dei pescherecci e gli addobbi delle reti lungo la spiaggia. D’ inverno, quando pescare rendeva poco, io - che ero allora un ragazzino - andavo a lavorare con le Oil Companies, per tornare in barca al tempo giusto e riempire le reti di sgombri, ostriche e gamberetti». Il 16 giugno, mentre la Deepwater Horizon (internazionalmente conosciuto col nome di Macondo) continua a vomitare in acqua i suoi rigurgiti velenosi, la Bp assume l’ impegno di stanziare 20 miliardi di dollari per le «operazioni di pulizia» destinate a riparare gli ingenti danni arrecati alla Costa e a una regione di 14 milioni di abitanti dalla fuoriuscita dell’ oro nero. Anche David Chauvin aveva diritto a quel risarcimento. Ma confessa di non aver ancora visto una lira. Con meno del 5% della popolazione mondiale gli Stati Uniti sono di gran lunga i più grandi consumatori di petrolio del mondo. Secondo dati forniti dagli esperti delle finanze Usa, nel 2010 gli americani spenderanno 850 miliardi di dollari in prodotti petroliferi. Però è altrettanto vero che società quali Exxon, Shell, Chevron, Conoco Phillips e Valero danno lavoro a 400 mila persone sparse in più di un centinaio di Paesi. L’ immigrazione in Louisiana della gente di colore (africani o neri delle Antille) sembra a livello zero. Si avverte una lieve tolleranza per i latino-americani e per gli asiatici, che pure sono pochissimi. Netta l’ impressione che tanto i governanti quanto la gente del luogo non amino le «contaminazioni» e tanto meno i «connubi» e le «fusioni di sangue». Quando chiediamo alla signora che gestisce una pizzeria nella Grand Isle se non abbia mai pensato di trasferirsi a New Orleans, la risposta è secca: «Ma quella non è una città - urla - è un bordello pieno di negri, assassini, ladri, prostitute. Qui, almeno, l’ aria è pulita e nella mia pizza non c’ è il petrolio del Macondo». Il mio primo incontro con un profugo vietnamita avviene nel porticciolo di Venice mentre lui si dondola nell’ amaca. Dice solo Saigon quando gli chiedo da dove venga: tutto il resto della sua storia è un mistero, come quello, del resto, dei suoi 6.800 conterranei che cominciarono a sbarcare su queste sponde nel ’ 75, alla fine della guerra del Vietnam. Sono in tutto 1.200 famiglie e l’ 85% degli uomini ha trovato lavoro nell’ industria della pesca, occupazione assai diffusa nel loro Paese, con tutto quel mare attorno e quella lunga, assolata costa da Ho Chi Minh City, ad Haiphong, sventrata dalle cannonate. Si tratta di un assembramento di famiglie di religione cattolica. Le prime undici sbarcarono a New Orleans nel ’ 75, attratte - dicono ora - dal clima della Louisiana, molto simile, anche per le piogge, a quello del Vietnam. Gradualmente la comunità si infittisce e nell’ 83 nasce la prima parrocchia vietnamita degli Stati Uniti. Ma se proprio vuoi toccare con mano lo stato di amarezza al limite della disperazione provocato dal collasso della Deepwater Horizon, ho sentito dire a Venice, non si può ignorare la marina di Yscloskey, 38 miglia ad Est di New Orleans. «Qui - dice uno dei pescatori che sembra anche il meno affranto - i frutti di mare che raccogliamo nelle reti sono la sola nostra fonte di ricchezza, anzi, che dico?, di sopravvivenza. Non fosse stato per la disintegrazione del Macondo, questa sarebbe stata l’ annata migliore per la pesca di granchi e gamberi». Sei anni fa, raccontano, un temporale che più violento non sarebbe possibile immaginare investì e devastò il villaggio, le case, il pontile, le barche e si portò via tutto dentro una spaventosa roggia di fango facendo un danno complessivo valutato sui 150 mila dollari. Solo un paio d’ anni dopo ne sono arrivati altri due, nello spazio di una settimana, che «sembrava la fine del mondo», e hanno sfasciato tutto. Nei giorni, anzi nei mesi che seguirono, i pescatori di Yscloskey dovettero fare i conti con quelle «brutte bestie» della disoccupazione, dell’ inerzia forzata e della fame. Le autorità sostengono - interviene Jacil Hartet, 36 anni, addentando senza entusiasmo un sandwich di roast-beef - che non c’ è più traccia di petrolio nel Golfo del Messico, ma allora perché hanno transennato alcuni tratti della costa? Di vero c’ è che il petrolio si è stratificato sul fondo del mare e sta ammazzando pesci e molluschi. Io ho moglie e due figli e non so proprio come sbarcare il lunario. Non si vende quasi più niente o si vende sottocosto, perché la gente continua a temere il peggio». La giornata del pescatore inizia alle 8 del mattino e termina verso le 6/7 della sera. Ma oggi hanno disertato le barche e sul pontile affogano la quotidiana amarezza bevendo a canna una selva di bottiglie di Budweiser, che però non sembrano ottenere l’ effetto sperato. «Qualcuno deve pur aver notato - suggerisce Bruce, un tipo piuttosto laconico che gode di autorità e prestigio nel sindacato dei lavoratori - che nessun rappresentante dell’ azienda si è fatto vivo ed è venuto a trovarci per rendersi conto della gravità della situazione». Dopo l’ uragano Katrina che cinque anni fa investì e devastò la regione facendo 1.800 vittime, le proporzioni del disastro del 20 aprile rischiano di essere sottovalutate. Per Gary Carbo, consigliere dell’ organizzazione Carità Cattolica, la disintegrazione del Macondo ha avuto invece un impatto devastante sulla comunità locale, con allarmanti fenomeni di ansietà, depressione e tutta una serie di disagi fisici e morali. Carbo, 67 anni di cui 32 spesi nel corpo dei pompieri di New Orleans, ha fatto ricorso a interventi immediati, a sostegno dei pescatori, prime vittime del disastro, destinando un assegno di 100 dollari la settimana a 125 famiglie particolarmente colpite dalla tragedia. È stata la foto raccapricciante del pellicano in fin di vita con le piume grondanti petrolio, salvato in extremis circa due settimane dopo l’ esplosione della Deepwater Horizon su un’ isola della Louisiana e portato d’ urgenza in elicottero al Centro riabilitazioni per volatili, sul delta del Mississippi, a richiamare l’ attenzione internazionale sulla minaccia dell’ oro nero nel Golfo del Messico. Più di duemila pellicani con le piume inzuppate di petrolio sono stati trovati morti sui litorali del Golfo. «L’ incidente della Deepwater Horizon - ha scritto Mandy Joye, docente presso l’ Università della Georgia - è una diretta conseguenza della nostra globale dipendenza dal petrolio. Incidenti come questi sono inevitabili mentre noi continuiamo a scavare in acque sempre più profonde». Avvertimento rivolto soprattutto agli americani che sventatamente bruciano circa 20 milioni di barili di petrolio al giorno. Il Mississippi, avvertono gli autori di un libro fresco di stampa che, dopo aver fatto l’ anatomia dal disastro, tentano di indicare quale sarà il destino del Golfo, è l’ arteria pulsante della regione, ne irriga i campi nutrendone la fauna e la flora mentre allo stesso tempo asseconda il traffico fluviale da Minnesota al Delta. «Noi siamo gente (che vive) in costante disastro - ha detto Derrick Evans, insegnante di storia, durante un convegno di uomini di Chiesa e autorità civili del circondario, indetto per discutere sul da farsi dopo il collasso del Macondo - e non facciamo in tempo a riprenderci da una sciagura che subito ce ne piomba addosso un’ altra».
Ettore Mo