Mara Gergolet, Corriere della Sera 20/11/2010, 20 novembre 2010
«OFFENDE LE DONNE DI BOSNIA» E LA JOLIE DICE ADDIO A SARAJEVO
Goodbye Bosnia. Questo è l’ ultimo ciak. E Angelina Jolie, su questa montagna a sessanta chilometri da Sarajevo, in questo villaggio bruciato quindici anni fa dai serbi e rimasto un set di guerra - dove si girano, appunto, le scene finali del suo (contestato) film -, ieri non si è presentata affatto. «Vedrete che verrà in Bosnia, almeno per un giorno, è sicuro al cento per cento», prometteva il suo produttore locale Edo Sarkic. Invece, ieri, sotto la pioggia, era lui a riprendere i camion di (finti) soldati serbi che scendevano nella vallata, sullo sfondo gli scheletri anneriti delle fabbriche incendiate dalle bombe (vere) di Mladic. Angelina, da Budapest, gli ha mandato una troupe. Missione abortita, quindi: non c’ è stata nessuna scenografica riconciliazione (a film terminato) con la Bosnia, il Paese che Angelina - scegliendo d’ esordire come regista proprio qui - aveva prima esaltato, poi infastidito, infine frustrato. Tutto, a Sarajevo, si era complicato quasi subito. Appena su Internet sono girate le voci sulla trama di quella che per ora si chiama Untitled love story: ma davvero il film di Angelina parla della storia d’ amore tra una ragazza musulmana e un ragazzo serbo, suo stupratore e aguzzino? Un remake balcanico del Portiere di notte con Charlotte Rampling e Dirk Bogarde? Angelina smentiva (secondo un giornalista Afp, che ha letto la sinossi, gli ex innamorati invece si ritrovano in un campo di concentramento, lei prigioniera lui guardiano). Intanto, però, partivano le proteste. Offese le donne vittime degli stupri. Confuso il ministro della Cultura, che prima ritira il permesso di girare, poi ci ripensa, ma ormai Angelina aveva spostato le tende in Ungheria: a Sarajevo e a Vare, ha deciso, girerà (o meglio, farà girare) solo le indispensabili scene d’ esterni. Ed è a Budapest che si fa raggiungere da Brad Pitt e famiglia. Eppure, a Sarajevo c’ è chi aspetta ancora. Come Bakira Hasecic, leader dell’ organizzazione delle «Donne vittime della guerra». E’ da lei che è partita due mesi fa la rivolta. «Aspettiamo ancora che la Jolie ci parli - dice -. Ha scritto una lettera aperta, ma nessuno del suo staff ci ha mai contattato». Non conta, per lei, che lo stupro sia un’ invenzione. «Anche una storia d’ amore tra una prigioniera musulmana e un aguzzino serbo non può essere vera. Impossibile, in mille casi documentati non è mai successo. Non accettiamo che il nostro dolore venga svilito, che venga trasformato in una non verità». Il loro dolore. C’ è un bellissimo film, Grbavica di Jasmila banic (Orso d’ oro a Berlino 2006) che l’ ha raccontato. Ma occorre arrivare nella periferia più spoglia e umile di Sarajevo, dove Bakira ha trasformato due stanze a pianoterra nel suo quartier generale, per provare ad avvicinarlo. I muri dell’ ufficio coperti di ritagli di giornale, le foto di Mladic e Karadzic, i persecutori, attaccate con lo scotch, i telefoni che squillano. E le donne che Bakira ha convinto a uscire allo scoperto («perché lo stupro, nella nostra società, per i musulmani, nelle famiglie, è un’ onta irreparabile e i serbi lo sapevano quando li programmavano»), sedute su vecchi divani, vi diranno tutte la stessa cosa: «Nessuno può capire quello che abbiamo passato». Eppure c’ è anche chi si ribella a questo fatalismo. Non tutti sono d’ accordo con Bakira. E se i primi a scendere in campo sono stati gli uomini di teatro, se la regista Zbanic ha affermato che «la censura che ha subito la Jolie è un atto di primitivismo e di totalitarismo», se un altro regista, Nenad Dizdarevic, è andato in tv a dire che, comunque, Il portiere di notte è un «piccolo capolavoro», dietro agli inaspettati guai logistici d’ una diva hollywoodiana è all’ improvviso parsa scuotersi tutta la società bosniaca. «Benvenuta a Sarajevo», così ha dedicato la copertina alla Jolie, due settimane fa, il settimanale Dani, con un totale rovesciamento delle tesi. E in una serie di articoli ha affrontato il grande tabù: lo status, accettato da tutta una nazione, di vittime perenni. «E’ ora di ammettere - scrive Belma Becirbasic - che lo sfruttamento dei traumi della guerra è stato usato anche come uno strumento politico». E ancora: «Non possiamo restare ostaggi del nostro passato di vittime del genocidio». Perché, è convinta Belma Becirbasic, «dietro la storia del film di Angelina c’ è l’ incapacità di questa società di andare avanti e lasciarsi la guerra alle spalle». Forse non è il dibattito che voleva scatenare Angelina, però a Sarajevo non è poco. Lei, da Budapest, ha rilasciato un solo commento: «Aspettate di vedere il film, poi mi giudicherete». Arrivederci nelle sale, tra 8-10 mesi. Mara Gergolet