Julian Barnes, il Fatto Quotidiano 21/11/2010, 21 novembre 2010
I TORMENTI DEL GIOVANE TOMASI
Per lo piu’ gli scrittori, un po’ paranoicamente, pensano di non essere stati apprezzati abbastanza. Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrive “Il Gattopardo” nel 1954 e nel maggio del 1956 manda il manoscritto alla Mondadori che lo rifiuta. Nel 1957 prova con Einaudi, ma l’esito non cambia. Tomasi di Lampedusa muore di cancro il 23 luglio 1957 e nel novembre del 1958 “Il Gattopardo”, pubblicato da Feltrinelli, e’ accolto da un travolgente successo e dalla fama mondiale...tardiva per l’autore. Verrebbe da chiedersi: ma come ha vissuto? Perche’ non si e’ dedicato prima alla scrittura? Il suo biografo David Gilmour elenca alcune ragioni: estrema timidezza, denaro sufficiente a non costringerlo mai a lavorare e la sensazione che, in quanto aristocratico e per di piu’ siciliano, era il prodotto di una cultura irrilevante e che aveva fatto il suo corso. A questi fattori si aggiungano un esaurimento nervoso in gioventu’ e una madre dominante al punto da imporre al figlio, che aveva sposato la psicoanalista lettone Alessandra “Licy” Wolff, di intrattenere con la moglie quasi esclusivamente rapporti epistolari.
IN SOSTANZA quella di To-masi di Lampedusa e’ una vita di “attesa”, persino difficile da descrivere. Passa le giornate curiosando nelle librerie, leggendo per ore nei caffe’ e magari andando al cinema la sera. Alla moglie Licy confida che l’Inghilterra e’ il suo “Paese ideale” e che ha un “temperamento inglese”. Nel 1990-91 Mondadori pubblica due volumi di circa 1.000 pagine dal titolo “Letteratura inglese” che raccolgono i pensieri e gli appunti di Tomasi di Lampedusa. E’ appena uscito in Gran Bretagna “Letters from London and Europe” e l’epistolario sottolinea l’anglofilia di Tomasi di Lampedusa. Tra il 1925 e il 1931 si reca cinque volte in Inghilterra, ma soggiorna anche a Parigi, Berlino e Zurigo. Le lettere sono per lo piu’ indirizzate ai cugini Casimiro e Lucio Piccolo che lo avevano soprannominato “Il mostro” per la sua “mostruosa” cultura. Certamente anche per un anglofilo, Londra e’ scioccante. “Sconcertante, terrificante e affascinante”, la descrive Tomasi di Lampedusa: “un delizioso inferno”. Naturalmente, essendo un aristocratico e nipote dell’ambasciatore italiano a Londra, gli e’ risparmiata l’Inghilterra meno “deliziosa ” e piu’ “drammaticamente vera” e lo stesso scrittore siciliano preferisce visitare le citta’ storiche che quelle industriali. Inoltre pur essendo in grado, come egli stesso scrive al cugino, “di esprimersi in un fiorito inglese vagamente elisabettiano”, in realta’ e’ troppo timido per parlare in una lingua che non e’ la sua. Durante uno dei suoi soggiorni viene invitato nel castello di Lady Hermione, figlia di Lord Powys, sposata con una nobile siciliano, che cosi’ racconta l’incontro: “una personalita’ molto chiusa. Puoi ‘incontrarlo’, ma non ‘conoscerlo’”.
AMMIRA “la serenita’ stupefacente del paesaggio”, apprezza le cattedrali inglesi che lo spingono a pensare che per la Sicilia sarebbe stato meglio se i normanni fossero rimasti sull’isola cinque secoli di piu’. Tutte queste considerazioni fanno sicuramente piacere ai lettori britannici, ma ci sono momenti in cui To-masi di Lampedusa ci consegna osservazioni piu’ pensose, momenti in cui l’aristocratico apparentemente irrilevante dell’”Islanda del sud” – come egli stesso chiama la Sicilia - ci fa sapere che capisce come funziona il mondo. Quando nel 1928 e’ ospite dell’Hotel Great Central a Londra, viene a sapere che nello stesso albergo e’ sceso un re africano . Lo incrocia nel corridoio, gli sorride e si inchina, ma poi scrive: “e’ uno dei tanti principini che la Britannia tiene incatenati al suo tridente d’acciaio e che di tanto in tanto si compiace di invitare a Londra in modo che possano ammirare gli autobus, le ragazze di fila dei balletti, le pellicce sintetiche e altre specialita’ britanniche tra cui i numerosi ed efficienti carri armati”. Nel 1930 da Berlino si dice incantato dalla “indecenza” della citta’. Osservando le “innumerevoli sgualdrine” e i tanti ragazzi di vita che affollano bar e caffe’, nota come “ragazzi supereleganti e perfettamente rasati....se ne stanno seduti in attesa che un ricco grassone invii loro, tramite il cameriere, un bigliettino. A quel punto lo raggiungono al suo tavolo e dieci minuti dopo escono insieme”. Ma dei tedeschi lo colpisce “lo zelo con cui perseguono ogni attivita’ fino alle estreme conseguenze e il desiderio di assoluto che sempre li anima”. In tutte le lettere fa capolino la sensibilita’ di quel “mostruoso” lettore che e’: le citazioni vanno da Dante a Paul Valery, da Herrick a Madame de Stael, da Shelley a Yeats, da Rossetti a Meredith. Rispondendo da Berlino ai cugini Piccolo, scrive: “non va dimenticato che sostanzialmente Beckford e’ uno scrittore del 18° secolo e quindi osserva tutto con ironia”. La stessa ironia di Tancredi quando ne “Il Gattopardo” dice: “bisogna che tutto cambi perche’ tutto rimanga com’e’”.