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 2010  novembre 21 Domenica calendario

BOMBE, SANGUE E LA RICERCA DI UN “REFERENTE”

La parte della sentenza dedicata alla fase successiva alla discesa in campo di Silvio Berlusconi sostanzialmente concede un’assoluzione penale a Marcello dell’Utri e una “politica” a Silvio Berlusconi. A differenza del Tribunale che aveva condannato il senatore Dell’Utri anche per la sua attività di mediatore con il mondo berlusconiano durante la “fase politica”, i giudici di appello ritengono che gli elementi raccolti non provano che ci sia stato un patto tra mafia e Forza Italia né che il garante di questo patto sia stato Dell’Utri. A leggere le motivazioni però si comprende che si tratta di un’assoluzione simile a un’insufficienza di prove e non certo a una dimostrazione di piena innocenza, penale e politica.
Può ritenersi provato che Cosa nostra proprio alla fine del 1993, ovvero nel periodo in cui maturava la decisione di Berlusconi, con il convinto sostegno e contributo di Dell’Utri, di impegnarsi direttamente in politica costituendo un nuovo partito, cercava nuovi contatti politici, in mancanza dei quali era stata avviata quella strategia stragista che aveva investito l’intero territorio nazionale (stragi a Roma, Firenze, Milano), e contestualmente progettava di costituire un partito sicilianista mafioso, iniziativa attuata nell’ottobre del 1993. Fino all’abbandono dell’idea autonomista, che sembra doversi collocare tra la fine del 1993 ed il gennaio del 1994, l’associazione mafiosa certamente non aveva ancora ottenuto “garanzie” politiche da alcuno.
LA SENTENZA perviene tuttavia all’affermazione della penale responsabilità di Marcello Dell’Utri in ordine al reato associativo contestato attribuendogli la commissione di condotte penalmente rilevanti anche in relazione al tema di prova in esame (“la stagione politica”) soprattutto valorizzando il ruolo che Vittorio Mangano avrebbe svolto nel periodo in esame, tra la fine del 1993 e la prima metà del 1994. I giudici di primo grado avevano dato grande importanza alle dichiarazioni del pentito Salvatore Cucuzza che aveva raccontato quanto gli era stato riferito allora da Vittorio Mangano e cioé che il fattore di Arcore, dopo essere stato scarcerato si era recato nell’estate del 1994 (ma secondo il Tribunale Cucuzza era incorso in un lapsus e l’estate in questione sarebbe stata quella del 1993, quando stava nascendo Forza Italia) per chiedere a nome della mafia a Dell’Utri, a nome di Forza Italia, garanzie sulle modifiche normative in favore di Cosa nostra per quanto riguardava in particolare il regime di isolamento carcerario del 41 bis. L’incontro, che si sarebbe tenuto a Como, era considerato riscontrato dai giudici di primo grado dalle annotazioni sull’agenda di Dell’Utri e dalle sue ammissioni nel corso dell’interrogatorio . La Corte di Appello ribalta queste conclusioni rileggendo sia le annotazioni che i verbali e alla fine dà a Mangano la patente del “millantatore”, addirittura nei confronti dei suoi capi.
Le risultanze acquisite al riguardo prendendo le mosse proprio dalle annotazioni rinvenute in un block-notes con la copertina “Omnia Labor Vincit” appartenente non già a Marcello Dell’Utri, bensì alla sua segretaria Elena Lattuada la quale, come nel caso già esaminato del giocatore D’Agostino, filtrava le telefonate che pervenivano all’imputato appuntando qualche riferimento sia nominativo che di contenutore. Le due annotazioni ritenute, secondo la sentenza appellata, un “dato documentale incontestabile ed altamente significativo” perché sarebbero “relative ad incontri” tra Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano, si rinvengono “sotto le date del 2 e 30 novembre 1993”. Ma è proprio l’esame delle due annotazioni contenute nel documento che impone di pervenire a conclusioni esattamente opposte a quelle del Tribunale in quanto emerge piuttosto la prova che almeno quei due incontri non si sono affatto verificati. Ed infatti, la prima annotazione (“Mangano Vittorio era a MI parlarle x problema personale”) non può essere in alcun modo indicativa di un incontro verificatosi tra l’imputato ed il Mangano essendo incontestabile che l’uso dell’imperfetto (“era a MI”) provi piuttosto un tentativo di contatto con l’imputato non andato a buon fine. La sentenza appellata ha inteso tuttavia valorizzare le presunte ammissioni che Dell’Utri avrebbe fatto nel corso dell’interrogatorio, ma anche su questo occorre fare chiarezza.
L’IMPUTATO, ricevuta lettura incompleta e parzialmente errata delle annotazioni da parte del pm, dopo avere escluso di ricordare sia quale fosse il “problema personale” del Mangano, sia specificamente la telefonata annotata dalla sua segretaria nel brogliaccio, ha soltanto confermato quanto aveva già riferito nel-l’interrogatorio reso qualche giorno prima, ovvero che Vittorio Mangano ogni tanto veniva a trovarlo a Milano “prospettando questioni di carattere personale, spesso attinenti a motivi di salute”. Né deve sorprendere che l’imputato nulla sappia o ricordi di quello specifico “problema personale”, solo genericamente accennato da Vittorio Mangano nella telefonata con la segretaria del Dell’Utri, se si considera che non è in alcun modo provato un successivo incontro in cui il Mangano gliene abbia poi parlato. Emerge dunque con assoluta ed incontestabile chiarezza dall’esame del verbale di interrogatorio che Marcello Dell’Utri non ha affatto ammesso di avere avuto con Vittorio Mangano quei due incontri del 2 e del 30 novembre 1993 che invece la sentenza appellata ha ritenuto essersi verificati.
La tesi allora di un Mangano che ha millantato il suo rapporto con Dell’Utri e Berlusconi falsamente rappresentando ai suoi sodali una inesistente trattativa politica in corso e pretese garanzie mai realmente prestate da alcuno non può essere disattesa anche perché supportata da ulteriori riscontri derivanti soprattutto dalla particolare personalità del Mangano che la difesa ha fondatamente rimarcato.
Vittorio Mangano è infatti risultato un soggetto aduso a vantarsi delle sue conoscenze tanto da esagerare la reale portata del suo rapporto diretto e personale con Silvio Berlusconi, che si era invece sostanzialmente esaurito a metà degli anni ’70, giungendo al dibattimento ad affermare persino che erano quasi parenti. Non è irragionevole ritenere che questi possa avere millantato con Cucuzza e La Marca anche riferendo loro di colloqui realmente avvenuti e di pretesi impegni in realtà invece mai assunti.
La Corte di Appello boccia il contributo offerto dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza per due ragioni: il pentito è stato tardivo nel riferire quello che sapeva su Dell’Utri e Berlusconi e poi il suo racconto è troppo vago.
È certo dunque che da quando ha formalmente manifestato l’intenzione di collaborare Gaspare Spatuzza ha dolosamente taciuto quanto egli ha poi affermato di sapere riguardo all’incontro del bar Doney e soprattuto alla grave confidenza ricevuta da Giuseppe Graviano sul conto dell’odierno imputato e di Silvio Berlusconi. E tali fatti ha continuato a tacere ben oltre il termine dei 180 giorni se è vero che la prima rivelazione al riguardo da parte dello Spatuzza è intervenuta, come già evidenziato, solo dopo altri sei mesi, il 16 giugno 2009.
NE CONSEGUE che, se le dichiarazioni differenti rese in dibattimento alla Corte devono ritenersi comunque utilizzabili, il giudizio sull’attendibilità intrinseca dello Spatuzza, sui fatti ritenuti di rilievo nel presente giudizio, non può che essere negativo. (...).
Tutte le considerazioni hanno indotto la Corte a dubitare più che fondatamente della credibilità ed affidabilità di un soggetto come Massimo Ciancimino finora rivelatosi, sulla base degli atti esaminati dalla Corte e con riferimento a quanto riferito sul conto dell’imputato, autore di altalenanti dichiarazioni che non ha esitato a rettificare o ribaltare nel tempo con estrema disinvoltura, senza supportare le sue oggettive contraddizioni con giustificazioni ragionevoli, accreditandosi come portatore di presunte conoscenze, quasi sempre de relato, perché attribuite alle pretese, ma non verificabili, rivelazioni di un padre defunto. Nell’unica parte di eventuale rilievo ai fini del giudizio in corso, ovvero i pretesi rapporti diretti tra Marcello Dell’Utri e l’allora latitante Bernardo Provenzano, la deposizione del Ciancimino presentava carattere di dichiarazione de re-lato di secondo grado insuscettibile di verifica e riscontro oltre che di ridotta valenza.