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 2010  novembre 21 Domenica calendario

B. SOTTO RICATTO DI COSA NOSTRA MANDÒ VIA I FIGLI

Le continue minacce ai figli, il tentato sequestro del principe Luigi D’Angerio appena uscito dalla villa di Berlusconi e poi ancora le bombe alla casa milanese del Cavaliere. La sentenza di appello dedica centinaia di pagine per descrivere i picchi violenti del rapporto tra il Cavaliere e la mafia e al ruolo svolto da Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano. Per i giudici Silvio Berlusconi era pronto ogni volta a cedere alle estorsioni pagando. E Dell’Utri era il mediatore. "Egli è divenuto dunque costante ed insostituibile punto di riferimento sia per Silvio Berlusconi, che lo ha interpellato ogni volta che ha dovuto confrontarsi con minacce, attentati e richieste di denaro sistematicamente subite negli anni, sia soprattutto per l’associazione mafiosa cosa nostra che, sfruttando il rapporto preferenziale ed amichevole con lui intrattenuto dai suoi due membri, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, sapeva di disporre di un canale affidabile e proficuo per conseguire i propri illeciti scopi non rischiando denunce ed interventi delle forze dell’ordine, quanto piuttosto con la garanzia di un esito positivo e dell’accoglimento delle proprie pretese
estorsive".
I giudici di appello descrivono in sentenza anche la reazione insolitamente soft di Silvio Berlusconi dopo l’arresto a casa sua di Vittorio Mangano e scrive interessanti considerazioni sul dolce addio di Berlusconi e sull’arrivederci di Dell’Utri a un simile soggetto.
E’ CERTO comunque che Vittorio Mangano, coinvolto o meno nel fallito sequestro del principe, dopo quella vicenda, arrestato il 27 dicembre 1974 per espiare una pena definitiva relativa ad una condanna per truffa e scarcerato il 22 gennaio successivo, si allontanò da Arcore, pur mantenendovi la propria famiglia, oltre che la residenza anagrafica fino all’11 ottobre 1976. Resta incerto se ciò sia stato deciso autonomamente dal Mangano ovvero se questi fu convinto ad allontanarsi per non alimentare il clamore negativo che l’ormai accertata presenza di un pregiudicato alle dipendenze del Berlusconi avrebbe causato all’imprenditore milanese. E’ certo invece che l’allontanamento non fu traumatico poiché Berlusconi continuò ad ospitare presso la propria villa la famiglia del Mangano e non esternò in alcun modo agli inquirenti i sospetti che pur aveva maturato sul coinvolgimento del Mangano stesso nel fallito sequestro di un suo ospite. Neppure l’imputato Dell’Utri peraltro, interruppe i suoi rapporti con Mangano, pur essendo ormai consapevole per sua stessa ammissione della sua personalità criminale e mafiosa.
Secondo i magistrati, dopo l’incontro con Stefano Bontate e dopo l’assunzione di Vittorio Mangano e Marcello dell’Utri, Silvio Berlusconi comincia a pagare la mafia e non smetterà di farlo fino al 1992.
Del pari rilevante ai fini dell’accusa è il fatto che dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza emerga altresì la conferma, a riprova del ruolo di garante svolto dal Mangano ad Arcore, che periodiche somme di denaro (50 milioni l’anno) furono versate a cosa nostra da Berlusconi venendo inizialmente ritirate proprio dal Mangano, denaro che certamente non era connesso al formale rapporto di lavoro presso la villa dell’imprenditore milanese, e che pervenivano tramite Nicola Milano al mandamento di Santa Maria di Gesù capeggiato dal Bontate. (...)
VI È UN’INDIRETTA conferma del fatto che anche Silvio Berlusconi in quegli anni lontani, pur di risolvere quel tipo di problemi, non esitava a ricorrere alle amicizie “particolari” dell’amico siciliano che gli garantiva la possibilità di fronteggiare le ricorrenti richieste criminali riacquistando la serenità perduta ad un costo per lui tollerabile in termini economici. Eloquente al riguardo lo sfogo che il Berlusconi ebbe, ben dodici anni dopo le minacce dei primi anni ’70 cui aveva fatto fronte rivolgendosi al Dell’Utri, nel corso della conversazione telefonica del 17 febbraio 1988 con l’amico Renato Della Valle al quale, commentando recenti intimidazioni subite che lo preoccupavano considerevolmente (“c’ho tanti casini in giro, a destra, a sinistra. Ce n’ho uno abbastanza grosso, per cui devo mandar via i miei figli, che stan partendo adesso per l’estero, perché mi han fatto estorsioni... in maniera brutta. … Una cosa che mi è capitata altre volte, dieci anni fa, e... Sono ritornati fuori. … siccome mi hanno detto che, se, entro una certa data, non faccio una roba, mi consegnano la testa di mio figlio a me e espongono il corpo in piazza del Duomo... E allora son cose poco carine da sentirsi dire e allora, ho deciso, li mando in America e buona notte”) ebbe ad affermare esplicitamente che, pur di stare tranquillo, non avrebbe esitato a pagare (“ma io ti dico sinceramente che, se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo, così almeno non rompono più i coglioni”).
LO STESSO Berlusconi qualche anno prima peraltro, stavolta con tono scherzoso, aveva ribadito l’atteggiamento, all’epoca assai diffuso tra le vittime di estorsioni, secondo cui per stare tranquilli era preferibile pagare. Conversando con Marcello Dell’Utri la sera del 29 novembre 1986, poche ore dopo l’espolosione dell’ordigno collocato sulla recinzione della villa di via Rovani a Milano, Silvio Berlusconi, ridendo, riferiva al suo interlocutore il contenuto del colloquio già avuto con i Carabinieri di Monza incaricati delle indagini ai quali aveva detto che, se coloro che avevano compiuto il danneggiamento gli avessero chiesto trenta milioni invece che
mettere la bomba, egli non avrebbe avuto difficoltà a pagare, suscitando ovviamente le stupite reazioni degli inquirenti che lo avevano invece invitato a resistere alle richieste estorsive (“Stamattina gliel’ho detto anche ai carabinieri……gli ho detto: "Ah, si? In teoria, se mi avesse telefonato, io trenta milioni glieli davo!" (ride). Scandalizzatissimi : "Come, trenta milioni? Come? Lei non glieli deve dare che poi noi lo arrestiamo!". dico: "Ma no, su, per trenta milioni!" (ridono)” (pag.12 vol.1 faldone 76).
Secondo la Corte d’Appello, Silvio Berlusconi sapeva benissimo chi era l’autore delle estorsioni ma si guardava bene dall’aiutare le forze dell’ordine, comportandosi come gli imprenditori che Confindustria oggi espelle dall’associazione datoriale.
Che peraltro Silvio Berlusconi fosse solito in quell’epoca risolvere i suoi problemi utilizzando canali diversi da quelli istituzionali si ricava anche dai commenti su tale attentato del 1975 compiuti nel corso della conversazione intercorsa con Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri in occasione di un secondo attentato con un ordigno esplosivo compiuto la notte del 29 novembre 1986 lungo la recinzione della stessa villa di via Rovani.
Orbene, già a poche ore dall’attentato i tre, conversando tra loro (alle ore 00,12 del 29.11.86), non avevano avuto alcun dubbio circa la responsabilità di Vittorio Mangano, oltre che per il fatto appena accaduto, anche per il danneggiamento compiuto undici anni prima, ancorchè non risulti che agli inquirenti all’epoca fosse stato offerto qualche elemento utile ad indirizzare proficuamente le indagini. E’ significativo che Silvio Berlusconi, nel commentare con un Marcello Dell’Utri oltremodo incredulo l’attentato subito nella notte ricollegandolo subito a quello perpetrato ai suoi danni undici anni prima, accomunate le due azioni criminali dalle medesime ragioni ispiratrici, non abbia avuto dubbi riguardo al fatto che si trattasse ancora una volta di una richiesta estorsiva proveniente da Vittorio Mangano sull’errato presupposto, indotto nel Berlusconi dagli inquirenti, del ritorno del mafioso in libertà (pag.1 e ss. vol.1 faldone 76: ”Allora, è Vittorio Mangano… che ha messo la bomba!... Eh, … da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza. …E’ fuori … Sì, è fuori.
(....)E COSÌ Marcello Dell’Utri aveva contattato immediatamente il solito Gaetano Cinà ed all’esito delle informazioni da questi acquisite con una straordinaria tempestività, già il giorno dopo la citata conversazione notturna (a distanza di appena due giorni dall’attentato) aveva potuto notiziare il suo datore di lavoro del fatto che il Mangano, contrariamente a quanto riferitogli dai Carabinieri, era ancora detenuto.(...).E’ certamente configurabile pertanto a carico del Dell’Utri (e del Cinà) il contestato reato associativo, (....) la condotta di Marcello Dell’Utri è risultata decisiva nell’apportare consapevolmente all’organizzazione mafiosa un contributo al suo rafforzamento avendo consentito a Vittorio Mangano e quindi a cosa nostra di avvicinarsi a Silvio Berlusconi avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni.