Il Fatto Quotidiano, 21/11/2010, 21 novembre 2010
A CAVALLO DELLA MAFIA
La sentenza di appello nei confronti di Marcello Dell’Utri ripercorre trenta anni di rapporti tra l’impresa e la politica berlusconiana da un lato e mafia dall’altro lato. Le motivazioni della sentenza confermano la condanna per il senatore riducendola a sette anni per il periodo che va fino al 1992 e dichiarano la sua non colpevolezza, con un’argomentazione che somiglia a un’insufficienza di prove, per il periodo successivo al 1992. “Il Fatto” pubblica di seguito e nelle prossime tre pagine le parti più importanti della sentenza. A partire da quella dedicata a Vittorio Mangano e all’incontro, che i giudici ritengono provato, tra Silvio Berlusconi e il boss Stefano Bontate, all’esito del quale la mafia decise di inviare Mangano ad Arcore. Per i giudici di Palermo, Dell’Utri fino al 1992 è stato "costante ed insostituibile punto di riferimento sia per Silvio Berlusconi, che lo ha interpellato ogni volta che ha dovuto confrontarsi con minacce, attentati e richieste di denaro sistematicamente subite negli anni, sia soprattutto per l’associazione mafiosa cosa nostra che, sfruttando il rapporto preferenziale ed amichevole con lui intrattenuto dai suoi due membri, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, sapeva di disporre di un canale affidabile e proficuo per conseguire i propri illeciti scopi non rischiando denunce ed interventi delle forze dell’ordine, quanto piuttosto con la garanzia di un esito positivo e dell’accoglimento delle proprie pretese estorsive".
Il rapporto tra il Cavaliere e la mafia - secondo i giudici parte con l’assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, non a caso avvenuta poco tempo dopo l’arrivo di Marcello dell’Utri alla Fininvest e dopo un incontro negli uffici milanesi di Berlusconi con il boss della mafia di allora, Stefano Bontate.
Sul punto la Corte di Appello non fa sconti a Silvio Berlusconi che, ancora nel 2007 alla convention dei giovani dei Circoli del buongoverno di Dell’Utri continuava a raccontare balle sull’assunzione di Mangano. A differenza di quello che dice il Cavaliere da anni, lo stalliere "eroe" per il premier e mafioso per i giudici arrivò ad Arcore come rappresentante di Cosa Nostra in villa: "non potendo seriamente ritenersi che l’imprenditore Silvio Berlusconi, acquistata la Villa Casati ad Arcore, avendo solo l’esigenza di individuare un fattore o più precisamente un responsabile della manutenzione dei terreni e della cura degli animali, si sia determinato ad assumere proprio lo sconosciuto Vittorio Mangano, scelto e proposto da
MARCELLO DELL’UTRI
asseritamente solo per le sue pretese capacità lavorative. Non risulta invero che l’imputato, che come detto aveva conosciuto e frequentato Vittorio Mangano nel periodo della società calcistica Bacigalupo al solo scopo di sfruttarne, nei riguardi dei terzi malintenzionati, le capacità “dissuasive” di cui era evidentemente dotato a causa del suo già noto spessore criminale, abbia mai riferito di specifiche competenze maturate dal Mangano nel settore della gestione di aziende agricole (....) che, se la ricerca avesse avuto ad oggetto una persona che fosse solo esperta di cavalli o cani e competente in materia di tenute di aziende agricole, ben difficilmente sarebbe stata condotta proprio tramite Marcello Dell’Utri, appena giunto in Brianza e privo di ogni specifica competenza al riguardo, estendendola addirittura fino in Sicilia, in quanto sarebbe stata più opportunamente orientata in zona, magari rivolgendosi proprio ai precedenti proprietari della villa Casati appena acquistata o comunque ai titolari delle tenute limitrofe (....)
L’obiettivo reale era invece quello di assumere un soggetto dotato di adeguato e notorio spessore criminale la cui presenza sui luoghi avrebbe dovuto porre al riparo da minacce ed attentati l’imprenditore milanese il quale era entrato evidentemente nel mirino di organizzazioni malavitose operanti in quel periodo ed in quella zona, attratte dal suo crescente successo ed arricchimento personale.
Tale conclusione del Tribunale, che la Corte ritiene di condividere, trova riscontro oltre che sul piano logico, anche e soprattutto nelle dichiarazioni rese da Francesco Di Carlo in merito all’incontro milanese avvenuto alla presenza di uno dei più influenti esponenti mafiosi dell’epoca, Stefano Bontate, il quale, forte della sua autorità in seno a cosa nostra, decise di collocare al fianco di Berlusconi un soggetto come Vittorio Mangano tale da far comprendere a chiunque da quale potente associazione criminale fosse, da quel momento in poi, protetto quell’imprenditore.
La Corte ritiene che una complessiva valutazione dei dati acquisiti imponga di ritenere che l’arrivo di Mangano ad Arcore fu deciso proprio in esito a quella riunione che si svolse, come correttamente ricostruito dalla sentenza appellata, in un periodo compreso tra il 16 ed il 29 maggio 1974.(.... )E’ provato inoltre che il Mangano, assunto quale fattore o soprastante,
venne ben presto adibito sostanzialmente alla sicurezza del suo nuovo datore di lavoro, e soprattutto dei suoi familiari, non potendo spiegarsi diversamente la ragione per la quale il predetto, assunto per occuparsi di terreni, cani e cavalli, fu invece destinato da Berlusconi, che pur disponeva di autista personale, ad accompagnare i figli a scuola o talvolta la moglie a Milano per le sue incombenze.
E’ lo stesso Dell’Utri invero a confermarlo affermando che il Mangano “era un uomo di fiducia assoluta, tant’è che Berlusconi faceva accompagnare i bambini a scuola solo da lui, neanche dal suo autista, accompagnava qualche volta la moglie in città, a Milano”. (....)
DEVE ALLORA reputarsi certo, anche sul piano logico, che ad impegnarsi per garantire l’incolumità di Berlusconi sia scesa in campo l’associazione mafiosa ai suoi massimi livelli criminali, forte della sua notoria pericolosità e potenza a livello nazionale ed internazionale, e dunque dotata di adeguata ed indiscutibile capacità dissuasiva, così come riferito da Francesco Di Carlo, presente alla riunione convocata negli uffici di Milano proprio per decidere al riguardo.
Se dunque per quanto sin qui esposto l’autentica ragione sottostante all’assunzione di Vittorio Mangano fu quella di garantire Silvio Berlusconi, e dunque ben altra rispetto a pretese competenze in materia di allevamento di cani e cavalli, deve ritenersi credibile, anche sul piano logico, il racconto di Francesco Di Carlo in merito all’incontro svoltosi a Milano negli uffici del Berlusconi alla presenza, oltre che di questi, del dichiarante e dello stesso Dell’Utri, anche di Gaetano Cinà, Girolamo Teresi e soprattutto Stefano Bontate, che era uno dei più importanti capimafia dell’epoca (membro fino a poco tempo prima del “triumvirato”, massimo organo di vertice di cosa nostra agli inizi degli anni ’70, con gli altrettanto noti Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio). (....) Collocato pertanto l’incontro milanese riferito dal Di Carlo nella seconda metà del mese di maggio del 1974, può ritenersi che oggetto della discussione, dopo i convenevoli di rito, sia stata proprio la “garanzia” di protezione che Berlusconi aveva inteso ricercare tramite Marcello Dell’Utri (esame dib. Di Carlo “hanno parlato che lui aveva dei bambini, dei familiari che non stava tranquillo, avrebbe voluto una garanzia che qua Marcello m’ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo ed altro… Marcello Dell’Utri aveva detto che Stefano poteva garantire, dice: lei m’ha detto … Marcello m’ha detto che lei è una persona che può garantirmi questo ed altro”) e che Stefano Bontate si impegnò personal-mente ad assicurare con la sua indiscussa autorità mafiosa indicando a Berlusconi proprio l’imputato per ogni eventuale futura esigenza (“lei può stare tranquillo se dico io può stare tranquillo deve dormire tranquillo, lei avrà persone molto vicine che qualsiasi cosa lei chiede avrà fatto e lei poi ci ha Marcello qua vicino per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello …”) e contestualmente stabilendo che avrebbe mandato o comunque incaricato specificamente qualcuno che gli stesse vicino (“ci metteva Dell’Utri accanto e poi dice le mando qualcuno, se già non ce l’ha”). (....) Ciò che risulta decisivo ai fini del processo è che comunque Vittorio Mangano fu assunto e rimase al servizio dell’imprenditore milanese ad Arcore con un incarico specifico deciso da Stefano Bontate, uno dei più potenti capi della mafia siciliana dell’epoca, scelto e mandato lì solo per tale ragione: rappresentare a chiunque che il suo nuovo datore di lavoro da quel momento in poi era “intoccabile” perché godeva della protezione della più pericolosa e diffusa associazione criminale del paese.