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 2010  novembre 21 Domenica calendario

NON BASTA LA PASSIONE

Ta-taaa, ta-taaa: gli accordi dell’apertura cadenzante, la solita trappola dell’Imperatore di Beethoven, suonano così: entra il pianoforte, l’orchestra lo agguanta in ritardo. Una, due volte. All’attacco, alla ripresa. Può capitare. Però non è bello, restituisce un effetto di balbuzie, di imprecisione. U-no, du-e, tre-e, quat-tro: il famoso Adagio della Settima di Bruckner, canto funebre in memoria di Wagner, è un carro che si è impantanato nella terra molle, sta lì bloccato, pesante. Battuto in otto, costantemente, come una predica, esce solfeggiato, senza che mai la linea melodica prenda respiro, continuità, ali.

Siamo al concerto di esordio della stagione sinfonica della Scala. Tre repliche, il teatro traboccante, molta attesa, molta voglia anche benevola di ascoltare musica. E soprattutto di vedere di nuovo all’opera lui, il giovane artista costruito come emblema del "sistema" venezuelano: la musica che riscatta, i bambini che suonano in cento orchestre, la povertà riempita di cultura. C’è anche un preciso disegno politico dietro: le orchestre sono un meraviglioso biglietto da visita per uno Stato nel mondo.

Gustavo Dudamel ha un legame privilegiato con la Scala. È il teatro che per primo gli ha dato fiducia: Don Giovanni, quando non aveva mai diretto un’opera, poi Bohème e in questo mese Carmen. Mai esecuzioni memorabili però, o di successo travolgente. Sempre l’impressione di doverci trovare dall’esterno le giustificazioni, più che un’immediata convinta adesione. Un direttore si costruisce, nel tempo. Ma in Dudamel sentiamo alcuni difetti costanti: la linea musicale discontinua, intermittente, di fiato corto; alcuni momenti accesissimi, iperveloci, iperinfuocati, e poi il vuoto, l’orchestra che sparisce. E frequenti incertezze di appiombo, buca-palcoscenico, buca-coro.

A scrivere negativamente di Dudamel si fa fatica, ci si sente come col fucile sulle emozioni del valoroso «Sistema Venezuela». Ma il giovane direttore ha delle responsabilità musicali sul futuro del progetto. E ci è sempre parso carente sotto il profilo tecnico. La tecnica anche in musica sprona la fantasia, fonda la creatività. In particolare – e potrà sembrare paradossale, perché comunemente si crede sia l’aspetto più facile – Dudamel fa fatica nell’accompagnare. Soprattutto quando lavora con la Scala. Lei, la Signora, ha nel Dna certe regole, inspiegabili, fatte di abitudini sedimentate, del non-detto nel passaggio di leggio maestro-allievo. Le conosce e le esprime in maniera tutta sua. Se non ci si allinea, si è perduti. Per allinearsi bisogna macinare melodramma, masticare polvere da pianisti accompagnatori, affiancare i cantanti, sapere che la Scala è ancora inzuppata di accento italiano. E non c’è Wagner o Beethoven che tenga: quando si va sul sinfonico, quando si vuole ottenere dalla fila dei primi violini una linea compatta, piuttosto che dagli ottoni uno squillo sicuro e pastoso, bisogna ricominciare tutto da capo. Insegnando, provando, costruendo. Tecnicamente, sugli strumentisti. Anche al limite mettendo solo a posto le arcate, perché non si può, sul palcoscenico della Scala, vedere tanta confusione.

Altrimenti succede come al concerto di questa settimana. Sbagliato già nel programma: come pretendere Quinto di Beethoven e Settima di Bruckner, in mezzo a repliche di Carmen, Barenboim in arrivo per Walkiria, apertura della Filarmonica con Gergiev e mini-tour di questa, all’estero? Dudamel deve aver avuto ben poche prove. E Bruckner, ancorché diretto a memoria, non porta aria nuova. Anzi, arriva vecchiotto, bolso, ripetitivo a oltranza. Nell’intervallo, al bookshop Scala, passano il filmato di una Nona, sempre Bruckner, del 1956, con la Rai di Torino che sembrano i Berliner e Celibidache. Da tuffo al cuore.

Non era contento Dudamel. È un giovane onesto, non bluffa. Finito l’Imperatore sgangherato di Beethoven, con Pierre-Laurent Aimard che andava da una parte, astratto di fraseggio e colori, inaspettatamente anticato stile Couperin, e lui che invece ne valorizzava i tratti militari, prussiani, se ne stava defilato. Indietro, sui moderati applausi, in mezzo all’orchestra. Come a dire: faremo meglio un’altra volta. Lo aspettiamo. La Scala però sia prudente con lo sbilanciarsi con lui in frettolose, poco giustificate, incoronazioni.