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 2010  novembre 22 Lunedì calendario

LE NOTE DOLENTI DEL «CARLO FELICE»

«The show must go on, inside my heart is breaking, my make-up may be flaking, but my smile still stays on». Addio Barbiere, addio Rigoletto, addio Madama Butterfly, si va in scena comunque, con un sorriso triste. Si alza il sipario, stasera, per i cento musicisti e i sessanta coristi del teatro Carlo Felice di Genova che apriranno il programma del cartellone autunnale con un concerto diretto da Zubin Mehta e la partecipazione del pianista Rudolf Buchbinder.

I primi e i secondi violini a sinistra, i violoncelli al lato opposto, proprio davanti ai bassi, e al centro le viole, i flauti e i clarinetti e via, via tutti gli altri, finalmente riuniti sotto la direzione del grande maestro. Insieme al coro sopra di loro daranno voce alle note di Ludwig van Beethoven per una platea che si annuncia gremita di pubblico.

Lo spettacolo riprende, dopo mesi di passione, in cui il timore più grande è stato la chiusura del teatro. Liquidazione coatta amministrativa. Queste tre parole così poco musicali, così lontane dall’arte, hanno rappresentato la spada di Damocle sulla testa di tutti i quasi 300 dipendenti - non solo gli "artisti", ma anche tecnici, impiegati, sarte e costumisti - della Fondazione lirica Carlo Felice, la più duramente colpita dalla crisi che attanaglia l’intero settore, causata da conduzioni non del tutto all’altezza e dal taglio dei fondi pubblici.

Dopo due anni di commissariamento e una produzione artistica in tono minore, nel giugno scorso si è insediato un nuovo consiglio di amministrazione che ha tirato le fila di una situazione finanziaria a dir poco catastrofica con un disavanzo patrimoniale di oltre 16 milioni. E ha avviato la procedura di liquidazione, scatenando le proteste dei lavoratori di fronte all’incubo concreto di perdere il posto. La soluzione per tamponare, almeno in parte, la voragine è arrivata a inizio novembre: contratti di solidarietà.

«La strada migliore per evitare la chiusura» ripetono dal cda. «Un boccone amaro» è la risposta più moderata che arriva dal fronte degli artisti. Perché se è vero che per due anni nessuno verrà licenziato, dall’altro lato l’accordo siglato da direzione e sindacati confederali (gli autonomi non si sono seduti al tavolo) prevede una riduzione del 40% dell’orario e il taglio di un quinto dello stipendio.

Ora che si torna a parlare di musica, le tante tensioni e polemiche si sono allentate, ma resta la convinzione per alcuni che questa non sia la soluzione migliore. I più fermi sulle proprie posizioni sono i contrabbassi, quelli che in pratica sono chiamati ad "amalgamare" i suoni e dare sostegno agli strumenti acuti. Il "paroliere" del fronte del no è Nicola Lo Gerfo, l’irriducibile segretario della Fials, la Federazione italiana autonoma dei lavoratori dello spettacolo. Ha appena scritto una lettera al presidente della Repubblica, a nome di tutte e tre le organizzazioni sindacali autonome, per esprimere ancora una volta il suo pollice verso agli ammortizzatori sociali. «Non siamo un’azienda sul mercato - dice il 56enne Lo Gerfo, musicista da trent’anni -, non vendiamo prodotti, ma offriamo un servizio sociale, questa riduzione drastica dell’orario ci mortifica come artisti, meglio sarebbe stato accettare la nostra proposta di rinunciare allo stipendio integrativo per due anni restando a tempo pieno». La protesta del contrabbasso è ancora più "grave" quando ripercorre sul proprio spartito gli ultimi quindici giorni: «Da quando sono partiti i contratti di solidarietà siamo stati fermi per un’intera settimana, solo nei giorni scorsi abbiamo ripreso a suonare tutti insieme in vista del concerto con Zubin Mehta: è come tenere ferma una squadra di atleti a ridosso di una gara, certo ci si può allenare a casa, ma il gruppo ha bisogno di lavorare insieme».

Più morbidi i toni dell’oboe. Il solista Guido Ghetti, 42 anni, ha inghiottito il boccone amaro e guarda avanti. «Di certo non sono felice - racconta –, mi dispiace dover lavorare di meno e temo ci sia un calo di motivazioni tra gli artisti, ma di fronte al rischio di restare disoccupato questo è senz’altro il male minore». Come lui la pensano - almeno sulla carta - i 147 dipendenti del teatro che hanno votato sì al referendum proposto da Cgil, Cisl e Uil sui contratti di solidarietà.

La messa in pratica della riduzione dell’orario segue percorsi diversi. «C’è chi lavorerà meno ore ma tutti i giorni - spiega Francesco Baldini, delegato aziendale Cgil - e chi invece solo alcuni giorni la settimana: i contratti di solidarietà non sono la bacchetta magica che risolve tutti i problemi, ma almeno hanno sbloccato l’attività, che era ferma da mesi». La domanda fondamentale, però, è sempre la stessa. «Ci sono le condizioni per lavorare bene? - si chiede Roberto Conti, uno dei baritoni del coro -. Un calo artistico è inevitabile, anche perché qui non ci sono esuberi, ma anzi siamo in carenza di organico: nel coro dovremmo essere 76 e invece siamo 61. Sentir dire che non potremo fare per due anni opere come il Barbiere o il Rigoletto, perché con gli orari ridotti sarà difficile, è una grande delusione». Un musicista, poi, deve avere un piano di lavoro chiaro. «Ora invece, si naviga a vista» commenta amaro Conti. La programmazione arriva fino a gennaio: si parte con la Traviata, seguita da un balletto (La Sylphide, dal 18 al 23 dicembre) e poi il concerto di Capodanno e L’elisir d’amore di Donizetti.

La stagione 2011 partirà in febbraio e si conoscono solo alcune anticipazioni: i Pagliacci e poi il Mameli di Leoncavallo, mentre è in forse Madama Butterfly. «Sarà difficile preparare più spettacoli insieme - spiega Ileana Guidarini, soprano e memoria storica del Carlo Felice -: abbiamo già dovuto rinunciare a un concerto fuori sede a favore della popolazione alluvionata di Sestri Ponente, cancellato molto probabilmente a causa della riduzione d’orario».

Sono lontani i tempi dell’entusiasmo «quando dal vecchio teatro Margherita ci siamo trasferiti nel nuovo Carlo Felice, ricostruito nel salotto buono della città: oggi a prevalere è l’angoscia, per un potenziale così grande sempre più inespresso».