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 2010  novembre 22 Lunedì calendario

LA FORTEZZA DI GERUSALEMME 12

luglio 2010

L’assedio d’Israele visto dalla tomba della matriarca Rachele, aspettando l’inferno
Alla tomba della matriarca biblica Rachele si arriva superando una guardiola di militari israeliani che vigilano sulle poche automobili che si avventurano verso questo magnete blindato dell’identità religiosa d’Israele. La tomba, che da fuori sembra più un fortino sotto assedio, è oggi uno dei luoghi più protetti di tutto Israele. C’è silenzio e quiete, ma una visita qui dà la sensazione di che cosa lo stato ebraico debba fare per proteggersi nel caso di una nuova Intifada nei Territori. Non lontano da qui c’è il campo profughi di Deheishe, dove c’è una “Via Baghdad”, in onore di Saddam Hussein.

Rahel Immenu, “Rachele nostra madre”, dorme da 3.800 anni in quella stanzetta bianca, coperta da un panno. La tomba, destinata a Israele dagli accordi di Oslo, è incapsulata in un sarcofago militarizzato, dove sono impressi i versetti tratti dal Libro della Genesi. L’esercito ha costruito una serpentina di torrette, filo spinato e altissime barriere. Il piazzale è sovrastato da un palazzo bianco sullo sfondo, da cui i cecchini palestinesi hanno aperto il fuoco su pellegrini e soldati. La tomba non è più la piccola cupola romantica che apparve ai visitatori nel passato. Per ricordare com’era, gli israeliani hanno dovuto dipingere l’antica immagine in un murales di fronte al bunker.

Terzo luogo santo del giudaismo, dopo il Muro occidentale a Gerusalemme e le tombe dei patriarchi a Hebron, “Kever Rachel”, come la chiamano in ebraico, sorge ad appena trecento metri dai confini di Gerusalemme. Ma siamo in un punto in cui durante la Seconda Intifada si veniva presi a sassate e a colpi di kalashnikov. L’esercito israeliano chiuse la zona ai pellegrini ebrei. Oggi arrivano gli ultraortodossi con la palandrana nera e i nazionalisti con la kippah colorata a uncinetto.
Arriviamo alla tomba accompagnati da Yoav Alon, un dirigente storico del partito Likud a Gerusalemme. Ingegnere con un fratello ucciso in guerra, “palestinese” da sei generazioni, cioè una delle primissime famiglie ebraiche immigrate in Israele nell’Ottocento, Yoav è l’uomo che per conto del ministero della Difesa sta costruendo pezzi della barriera difensiva che ha fermato i kamikaze palestinesi. Suo è il compound di Rachele. “Proteggiamo la popolazione civile”, dice Alon. E’ fiero di aver reso sicura Gerusalemme.

Alon ha costruito anche la cosa più alta che ci sia a Gerusalemme: il pennone d’acciaio visibile da qualunque punto della città, opera del famoso architetto Calatrava. Simile a un’arpa, lo strumento di re Davide. “C’erano degli amici dal Brasile che non potevano avere figli”, racconta Yoav. “Erano in visita in Israele, dissi loro di venire da Rachele per chiedere una benedizione. Acconsentirono, anche se dicevano di non crederci. Al loro ritorno a casa la moglie era incinta”. Una delle tante storie di miracoli della fertilità che circondano questo luogo triste e bellissimo. Rachele è una specie di Madonna ebraica, la protettrice della maternità santificata. Rachele, moglie di Giacobbe, dette alla luce due dei dodici figli del patriarca, Giuseppe e Beniamino, i più cari al loro padre e alla storia del popolo ebraico. Ma Rachele, nel dare alla luce Beniamino, morì. La stanza originale è piccola e si dice che in questo biancore avvengano miracoli di fertilità. Le madri delle spose senza figli avvolgono la tomba in lunghi fili bianchi girandole più volte attorno.
[Anche la tomba del figlio di Rachele, Giuseppe, è in una delle più fondamentaliste delle città palestinesi, nel cuore di Nablus. Per andarci si prende un pulmino con i vetri antiproiettili. I pellegrini ripetono che “l’anima dei profeti rimane nei luoghi dove sono sepolti”. Nel 1996 sei soldati israeliani furono uccisi nella tomba. E nel 2000 i palestinesi la distrussero. Fu ridipinta di verde, il colore dell’islam. Ci si va di notte, dopo che l’esercito ha reso “sicuro” il posto. Le donne hanno in braccio i bambini, fataliste ed eroiche].

L’immagine della piccola cupola ebraica di Rachele è impressa in monete, libri, banconote, talismani. C’è persino chi ha raccolto la terra attorno alla tomba per usarla, un giorno, nella propria. Si dice che quella terra santa propizi la salvezza dell’anima. Il premier Netanyahu ha appena incluso la tomba di Rachele fra i patrimoni israeliani, scatenando le ire islamiche. A pochi metri da qui sorge il cimitero islamico di Betlemme, dove riposa Ahmad Bek Abdel Aziz, un famoso comandante egiziano ucciso nel 1948. Israele quest’anno dovrebbe terminare la barriera difensiva. Dai quartieri di Gerusalemme ovest Alon ci mostra dove l’esercito sta tirando su un altro pezzo di muro. Nella vallata le ruspe lavorano senza sosta. “I terroristi possono ancora partire da Hebron, saltare l’attuale barriera e penetrare in Israele da qui”, dice Alon. Saliamo al messianico cimitero ebraico che da secoli si estende sull’altura dove i morti guardano il Monte del Tempio aspettando con pazienza l’arrivo del Salvatore. Si intravede in lontananza il muro che a tratti taglia a metà i villaggi di Abu Dis e Betania. Uno strumento triste ma necessario: da qui sono passati diciannove terroristi sucidi. “Questa chiesa ha chiesto di essere inclusa nel tracciato israeliano del muro”, dice Alon. Perché i cristiani stanno molto meglio sotto Israele che sotto l’Anp.
Altissimo e solitario, con una grandissima bandiera israeliana, sorge l’edificio acquistato dal magnate americano Irwin Moskowitz. Amico e già finanziatore del premier israeliano Netanyahu, il ginecologo milionario Moskowitz dalle sue ville in Florida, California e New York smuove da anni i fili della politica mediorientale.

“Il dottore” ha comprato un edificio in pietra a Gerusalemme, dove ha dato ospitalità al centro nazionalista Beit Orot. Poi ha venduto una casa di cura per anziani per comperare lo Sheperd Hotel, fuori dalla Città Vecchia, affittandolo alla polizia di frontiera israeliana durante l’Intifada. E’ “fiero” d’averlo sottratto al precedente inquilino: il Mufti di Gerusalemme alleato di Hitler durante la guerra. Con Alon attraversiamo Sheikh Jarrah, il quartiere al centro delle polemiche a Gerusalemme est, dove nazionalisti ebrei sono andati a vivere in mezzo agli arabi. E’ la Napoli (ottocentesca) di Gerusalemme, abitazioni basse, muri scrostati, cumuli di immondizie e detriti, alberi secchi in un quartiere povero che ospita alcune antichissime tombe giudaiche. In pochi minuti da lì si arriva al Monte degli Ulivi. La tomba di Simeone il Giusto, un antico saggio del Talmud, è un magnete per i nazionalisti israeliani, ma anche per i pii ultraortodossi che qui vengono notte e giorno a salmodiare a loro rischio. Le donne hanno i capelli raccolti sotto i foulard, le gonne alla caviglia sopra i jeans per preservare il pudore, gli uomini hanno la barba lunga e un libro di preghiere in tasca. Vicino alla Via Dolorosa, quella del Giudizio e della Flagellazione, nel quartiere arabo della città santa, sorge folle un’altra scuola talmudica. Anch’essa protetta dall’esercito. Il piccolo conglomerato ebraico di Beit Yonatan sorge in mezzo agli arabi di Silwan. E’ una vita di trincea. Sopra le case di Sheikh Jarrah sono state costruite gigantesche menorah di legno, i candelabri ebraici.

Poco più in là riprende il tracciato della barriera. Il mondo, per bocca della Corte di giustizia dell’Aia, ha giudicato “illegale” la barriera che ha fermato i kamikaze dell’Intifada. Gli israeliani sembrano determinati ma sofferenti. Inoltre il muro è amovibile, i morti giacciono per sempre. “La gente all’estero non sa quanto bene abbia fatto la barriera, anche ai palestinesi”, dice un’ex militante della sinistra che chiede di restare anonima. Da quando è stata eretta a ridosso della Cisgiordania le bombe umane si sono fermate. Chi ha in carico la sicurezza ci spiega che “non si sente parlare di attacchi perché i terroristi non riescono a superare il muro. Ogni giorno si presentano ai checkpoint con coltelli, pistole, pietre, bombe”. Il pezzo più impressionante è nel cuore d’Israele. Tra la Linea verde e la costa ci sono quindici chilometri. Vicino c’è Netanya, mezz’ora di cammino veloce, dove un terrorista si fece esplodere nella Pasqua ebraica massacrando trenta sopravvissuti all’Olocausto. Poco distante c’è Tel Aviv, colpita più volte. A nord Afula e Hadera, insanguinate anche loro.
Lungo l’autostrada l’esercito ha eretto un terrapieno dove campeggiano le aiuole e della barriera si vede soltanto la punta, con le telecamere. Qalqilya, città di confine come la verde e fiorita Tulkarem, è circondata dal muro. Prima che gli israeliani lo erigessero, i cecchini sparavano sulle auto. Ora c’è quiete.

All’altezza di Megiddo, la città dell’età del bronzo, dominata dal Monte Tabor, dove avvenne la trasfigurazione di Gesù, e teatro, secondo l’Apocalisse, della battaglia dell’Armageddon tra il Bene e il Male, un memoriale ricorda un devastante attentato compiuto nel 2005, quando ancora non c’era il muro. Erano le 7 e 15 del mattino e il pullman numero 830, in servizio tra Tel Aviv e Tiberiade, si avvicina all’incrocio di Megiddo. Il kamikaze è alla guida di una Renault carica di tritolo e si scaglia contro il mezzo. Il bus brucia per un’ora. Riesce a liquefare tutto ciò che si trova all’interno. Il mezzo salta in aria di fronte al più grande carcere militare israeliano, dove sono rinchiusi centinaia di militanti palestinesi. Sono loro a esultare di fronte alle giovani vite di israeliani bruciati vivi. Le guardie della prigione assistono impotenti alla strage. Un inferno di fuoco. Due cadaveri carbonizzati, un uomo e una donna, furono rinvenuti abbracciati fra le lamiere. A bordo c’erano soldati che rientravano alle basi. Su una lapide oggi si possono leggere i loro nomi. Come David Stanislavsky, l’immigrato dall’Ucraina che aveva acquistato un biglietto aereo per andare dalla fidanzata. O come Sivan Viner: il fratello l’aveva accompagnata all’autobus, dopo mezz’ora le telefona per sapere se va tutto bene; Sivan salta in aria poco dopo. Dall’altra parte della valle i dorsi delle colline della Galilea risalgono verso il confine con il Libano. C’è chi ha scritto “Welcome to Hell”, benvenuti all’inferno. E’ Jenin, “la capitale dei kamikaze”. Da qui sono usciti trenta attentatori islamici.

Impressionante è la barriera che protegge gli automobilisti israeliani sull’autostrada 443, che i pacifisti chiamano “apartheid road”, perché entra dentro ai Territori collegando Gerusalemme e Tel Aviv passando per Mod’in, una città nuova considerata un grande successo da Israele. Netanyahu, come gesto di distensione verso l’Anp, ha da poco riaperto la 443 ai palestinesi, dopo che era stata chiusa per l’uccisione di una dozzina di ebrei da parte dei cecchini dell’Intifada. Chi guida qui lo fa ancora a proprio rischio. Il Bagaz, l’Alta Corte israeliana, ha legiferato che la 443 venga riaperta per motivi di eguaglianza di fronte alla legge a tutti i veicoli anche se il prezzo può essere la vita di famiglie solo ebree.

A Gerusalemme si fortifica ormai anche sottoterra. Per avere un’idea dell’assedio del paese bisogna scendere nel famoso tunnel che corre lungo il Muro del pianto, il luogo più santo per l’ebraismo, costeggiando l’antico Tempio di Salomone su cui si ergono anche i luoghi di culto islamici di Al Aksa. Il tunnel venne aperto nel 1996 da Netanyahu e ci furono decine di morti durante una mini Intifada. Nessuno voleva che venisse svelato il segreto di quelle pietre ciclopiche che gli Asmonei più di duemila anni fa posero lungo il magnifico acquedotto che dava da bere alla città. Al tunnel si arriva da una porticina vicino alle toilette che i religiosi usano per lavarsi prima della preghiera. Questi tunnel sono uno dei luoghi più protetti di tutto Israele. Il mondo islamico ne ha fatto una delle leggende nere: dice che Israele con i tunnel voglia far crollare la moschea di al Aksa che sorge sopra il Muro del pianto. Ce n’è abbastanza per incendiare di nuovo il medio oriente.
L’apertura da parte delle autorità israeliane di una seconda uscita del tunnel che scorre lungo un tratto del perimetro esterno del Monte del Tempio ha dato vita a un’ondata di violenze palestinesi che hanno provocato la morte di ottanta persone. I commercianti arabi della zona oggi non protestano contro il tunnel, perché porta una gran cultura archeologica e un grande vantaggio economico; ma soprattutto conviene al quartiere arabo stesso, dove il passaggio sbocca. Nel 1990 l’allora premier di destra Yitzhak Shamir aveva preferito rinunciare al tunnel. Anche Yitzhak Rabin, che sapeva del tunnel, non volle aprirlo. Il canale fu ritrovato per caso nel 1981 dal rabbino del Muro del pianto, il cabbalista Yehuda Meir Ghetz, che ogni giorno era solito entrare nelle viscere della terra nella convinzione di trovarsi nel punto fisicamente più vicino al sancta sanctorum del Tempio di Salomone. Due anni fa l’ex first lady Laura Bush andò là sotto a pregare.

Gli uomini dello Shabbak, il servizio segreto interno, vigilano sempre sulla nostra visita. Donne religiose sono in costante preghiera presso un pezzo del muro. Gli archeologi non sanno ancora decifrare l’origine di queste pietre gigantesche lunghe dieci metri. Chi le ha portate qui? E come? Le sale delle magnifiche cisterne sono ornate di volte antichissime, commoventi. Il tunnel è una costruzione spartana, bassissima e stretta. Solo una persona alla volta riesce a camminarci. Fa freddissimo là sotto. Bandiere israeliane e luci gialle cercano di rendere il luogo meno angusto. In un angolo staziona un gruppo di religiosi raccolti nello studio della Torah. Gli archeologi hanno trovato una fonte d’acqua, che i religiosi usano come bagno rituale. L’uscita del corridoio bimillenario forse porta alla guerra. In un angolo le donne baciano commosse le grandi lastre, il loro volto è nascosto in un libretto dei Salmi. Un israeliano esclama, sconfortato: “Qui sotto sarà la fine d’Israele”.
Nel bunker d’Israele
Viaggio lungo i confini con Libano e Siria, aspettando qualcosa che sta per succedere
Più si sale in Galilea più si tocca con mano la necessità di sicurezza d’Israele. Persino la grande riserva d’acqua Eskhol, che porta il nome di un primo ministro israeliano, è un tesoro super protetto da una barriera elettrificata, telecamere e guardie armate. Nel timore che i terroristi provino ad avvelenare le falde. A Kiryat Shmona, “la città degli otto”, costruita in memoria dei primissimi pionieri socialisti che vennero quassù a fondare i kibbutz, ci si arriva da una strada di campagna che passa fra coltivazioni di frutta e verdura. Ogni tanto si incrocia qualche ciclista. E’ terra bruciata dalle bombe e dagli incendi. Strisce nere e bollenti solcano il terreno, punteggiate da mozziconi che furono aceri e cedri. Sono morti molti eucalipti importati dall’Australia. C’è silenzio sul confine israeliano col Libano, sopra Kiriat Shmona e sotto Metulla, dove nei giorni della guerra il concerto dei katiuscia la faceva da padrone. Un silenzio che gli israeliani del posto chiamano “cosiddetto”, perché è più il vibrare di una guerra che verrà e che avrà gli occhi di Ahmadinejad. E’ la quiete prima della tempesta.

Le ceneri delle ginestre accolgono il visitatore. Più a nord la strada s’incunea tra le colline irte di antenne e posti di osservazione: sulla destra il Golan e le creste una volta innevate del monte Hermon; a sinistra, le villette-bunker dell’insediamento di Metulla; in faccia, a tiro di kalashnikov, i minareti del villaggio arabo di Kfar Kila. Siamo nell’“unghia d’Israele”. Come al sud, a Sderot, la città bombardata ogni giorno da Hamas, ogni casa a Kiryat Shmona sta per essere munita di rifugio. La fila di case è interrotta da una nuova costruzione, una per piano, in cui le famiglie possono rifugiarsi in vista del prossimo conflitto scatenato dall’Iran. Il terrore più grande di questi ventimila abitanti è che l’allarme possa capitare quando i loro bambini sono soli per strada.

Qui Hezbollah, nell’estate del 2006, ha lanciato un migliaio di missili su tetti e strade. Gran parte dei duecento rifugi pubblici di Kiryat Shmona è stata restaurata, pronta all’uso, nuovamente. Perché il ciclo di violenza e di tregua quassù va avanti dal 1967. Sempre da qui Ariel Sharon e Menachem Begin lanciarono la tragica invasione del Libano del 1982. A Kiryat Shmona, orlata di alte montagne che echeggiano di tanto in tanto dello scoppio dei missili, ci sono una quarantina di asili nido e locali per bambini definiti “sicuri”. Israele ha ricostruito i rifugi per adibirli anche a uso civile, utili in tempo di pace. Rifugi sono oggi usati come biblioteche, club, scuole di danza e persino sinagoghe. In molti casi la città ha preferito non aspettare la lenta burocrazia del governo. E si è rivolta alla beneficenza privata. Alcuni rifugi di Kiryat Shmona, che i cittadini di qui hanno ribattezzato “Kiryat Katyusha”, sono stati possibili grazie alle donazioni della comunità ebraica nordamericana. Aharon Botzer è il fondatore di Livnot U’Lehibanot, l’organizzazione che ha raccolto il denaro necessario a rinnovare le strutture difensive della popolazione nella Galilea del nord. Livnot U’Lehibanot ha fatto il grosso del lavoro a Kiryat Shmona nel costruire e riparare i rifugi in preparazione della prossima guerra. Due milioni di dollari sono arrivati dalla diaspora statunitense.

“Il tempo è cruciale, non sappiamo quel che sta facendo Hezbollah”, dice Lisa Balkan, che si occupa delle relazioni pubbliche per l’organizzazione. “A novembre abbiamo iniziato a ricostruire i rifugi”, dice Boptzer. “Ne abbiamo rinnovato un centinaio, in gran parte erano del tutto inutilizzabili. Stiamo adesso proteggendo le scuole munendole di stanze contro i missili. Un grande aiuto ci arriva anche dai gruppi evangelici cristiani dagli Stati Uniti, molto generosi nell’aiuto alle città della Galilea del nord”. La triste expertise di Kiryat Shmona in fatto di bombe e traumi è diventata persino esportabile all’estero. Il Community Stress Prevention Center, che si trova nel vicino college di Tel Chai, ha fornito consulenza sui disastri in casi come il terremoto in Turchia, ad Haiti o l’uragano Katrina. Il cerchio fra il passato, il presente e il futuro di Israele sorge proprio su questa collina che guarda Kiryat Shmona. Tel Chai significa “la collina della vita”.
C’è un silenzio irreale fra le tombe del gruppo Hashomer Hatzair, i primi pionieri del movimento socialista che qui, negli anni Venti, vennero a fondare i kibbutz. Il leone si erge alto e solitario nella collina memoriale.

Di tanto in tanto qualcuno viene a rendere omaggio alle tombe, coraggiosi amanti del trekking e ministri della destra nazionalista. Il premier Netanyahu ci viene spesso. Ma in generale, questa collina è un luogo sempre più lontano dal cuore d’Israele, dalla modernità benestante di Tel Aviv e Herzliya.
Le tombe parlano. “Guardiano di Israele”, si legge su quella di Alexander Zeid. Nato in Siberia ed esiliato dalla polizia zarista, dopo i pogrom Alexander decise di fondare una milizia per proteggere gli ebrei. In Israele il suo gruppo prese il nome di Bar Giora, un eroe della rivolta contro i Romani. Il loro motto era: “Nel sangue la Giudea è caduta, nel sangue sorgerà di nuovo”. La scritta, immensa, campeggia di fronte alle tombe prive di sfarzo e pomposità. Chaim Shturman era nato in un villaggio ucraino, fu una leggenda del movimento laburista che coniugava lavoro e autodifesa. La sua pistola passò al figlio, che morirà nella guerra del 1948. Suo nipote cadrà in quella del 1967. Nel kibbutz sorge anche la tomba di Joseph Trumpeldor. Cercò di difendere il kibbutz di Tel Chai dall’aggressione araba, e prima di morire disse al poprio medico: “E’ un bene morire per il proprio paese”.

Un po’ troppo elegiaca per i tempi attuali. Eppure a Kfar Giladi altre storie parlano di eroismo. Sono quelle dei dodici soldati uccisi nel 2006. Erano paracadutisti, ma nella vita erano anche impiegati, avvocati, medici, professori universitari. Quando Israele li richiamò nella riserva, durante la guerra contro Hezbollah, gettarono nella borsa un po’ di biancheria e il sacco a pelo. Alla morte, a quella non pensavano. Andavano a rischiare la vita. I loro nomi sono incisi in un memoriale improvvisato vicino alle tombe degli anni Venti. A sua madre il soldato Bhaia Rein aveva detto: “Mi avete insegnato che bisogna dare tutto. Ma devi sapere che tutto alle volte significa proprio tutto”. Kfar Giladi in quei giorni era diventato il centro d’assembramento dei riservisti, arrivavano in bus, in moto, in autostop o con le auto con ancora i seggiolini dei loro bambini. “La sirena ha suonato, ha suonato per un minuto e loro niente, loro fermi lì, a parlare, a chiacchierare come se niente fosse”, dicono i responsabili del kibbutz. Sono stati uccisi il capitano Eliyahu Elkariaf e Yosef Karkash, morto insieme al cugino così che “la famiglia non sa chi consolare prima”. Shmuel Chalfon aveva quarantadue anni e non doveva essere nell’esercito, ma aveva insistito per partecipare alla guerra. Quando il razzo colpì il kibbutz, la madre di Shmuel vide in tv le sue scarpe a terra, inconfondibili.

A pochi chilometri da qui sorge Metulla, la città israeliana abbracciata al confine libanese dove negli anni Settanta i sicari di Arafat entravano per ammazzare studenti e turisti ebrei. E’ da qui che fin dal 2000 l’allora premier Ehud Barak si è ritirato entro i confini misurati dall’Onu. A Metulla fioriscono alberghi e attrazioni turistiche. Siamo a un tiro dai razzi di Hezbollah, eppure pare di essere in un sobborgo di San Diego. La città è troppo vicina alle rampe di lancio dei missili perché venga colpita, ma da qui Israele osserva i movimenti del nemico. Durante la guerra del 2006 a Metulla un terzo della popolazione fuggì via. Si temevano assalti ai civili. Oggi c’è una calma irreale. “Di là dal confine Hezbollah si sta riarmando fino ai denti”, dicono in paese.

Kiryat Shmona è come una fortezza silenziosa. Di shabbath nessuna macchina in giro, qualche passante con la kippah corre in sinagoga a pregare. Israele è fatto così, più si è ai suoi confini, più si è sotto attacco, più la gente si scopre religiosa. Durante l’ultima guerra i bambini in città disegnavano cupole bellissime in grado di proteggere la città dal cielo. Quella fantasia è quasi realtà. Alan Schneider, direttore del Bnai Brith World Center a Gerusalemme, spiega cosa sta facendo la sua organizzazione per aiutare la città: “Abbiamo finanziato un sistema antimissile creato dalla famosa Elbit Systems, è un sistema di telecamere e segnali sensibili in grado di fornirci informazioni su quel che accade a Kiryat Shmona e in altre città in caso di attacco. E’ un sistema sofisticato civile basato su una creazione militare. Abbiamo trovato i fondi necessari per l’implementazione delle unità mobili per il sistema di difesa. Il sistema è stato appena inaugurato. Siamo in grado di fornire una risposta rapidissima in caso di conflitto con Hezbollah”. Il capo di Bnai Brith si aspetta un nuovo round contro il Partito di Dio: “Di fronte al fallimento dell’Unifil e al passaggio di armi dalla Siria a Hezbollah, si teme il peggio. Oggi i terroristi libanesi hanno più armi di quante ne avevano prima della seconda guerra del 2006. A Kiryat Shmona forse oggi sono più in grado di rispondere alla guerra”.

Fa impressione constatare che i monti, che erano diventati neri per le bombe, ora sono verdi, che il traffico è di nuovo intenso. Non c’è traccia di effetti delle esplosioni a Kiryat Shmona. Si ricostruisce sempre subito. Eppure gli alberi più antichi d’Israele, le sue vecchie querce, carrubi e pini cresciuti uno a uno come bambini, non ci sono più. Ed è una grande tristezza per la gente perché le foreste della Galilea, simbolo di pace e di tranquillità, erano state la prima impresa di David Ben Gurion, il fondatore d’Israele. A differenza di prima e durante la guerra, ci si può affacciare su una terrazza che guarda i villaggi di Ataybeh, Markabe, Telkabe, teatri di sanguinose battaglie, si vede Hule in lontananza, la base Olesh dell’Onu. Nei villaggi di fronte si nascondevano uomini e missili di Hezbollah. Oggi pastori incaricati di osservare si danno il cambio prendendo nota di movimenti israeliani. Dietro a questo proscenio verde c’è un gran lavorio di riarmo e di ricostruzione, anche se mancano le bandiere gialle di Hezbollah e i cartelloni in cui mostravano la testa mozzata di israeliani. “Da quelle case lassù non vediamo mai una famiglia, un bambino, niente”, spiegano. Quelle case sono chiamate gli “occhi di Hezbollah”.

Non ci si mette tanto per arrivare sul Golan, le alture che Israele ha preso alla Siria nel 1967 e che sono oggi abitate da kibbutz e basi militari. L’allora capo di stato maggiore Yizchak Rabin diceva che questa è la terrazza usata dai siriani come rampa contro la Galilea. Sono appena due minuti di volo da un aeroporto siriano. Moshe Dayan, allora ministro della Difesa, sarebbe potuto giungere fino a Damasco, che dista appena settanta chilometri. La città di Quneitra sorge bassa e vicinissima sotto un’altura. Siamo ai confini più silenziosi d’Israele. Si ha fisicamente la sensazione di una fragilità strategica. Se Gerusalemme cedesse indietro a Damasco queste alture, sarebbero i siriani a guardare dentro a Israele. E cosa accadrebbe se al posto del regime di Assad prendesse il potere un governo islamista con mire genocide nei confronti del vicino ebraico?
Sul Golan non ci sono palestinesi, solo ebrei e drusi che hanno convissuto in armonia. Anche i “coloni” del Golan sono diversi da quelli della Cisgiordania. Sono nazionalisti di sinistra, dediti alla pace e alla difesa d’Israele. Si può arrivare in auto fino ai bordi di Quneitra, passeggiando dentro a una vecchia base militare siriana abbandonata. Un cartello militare impone l’alt. Oltre è Siria.

Quneitra è una specie di monumento alla guerra, che i siriani hanno conservato a ricordo del colpo inflitto da Israele nel 1967. Assad padre fece erigere una nuova Quneitra due chilometri a est della vecchia città. Quarantacinque mila cittadini siriani furono costretti alla fuga. Il villaggio, dopo la decisione di restituirlo a Damasco, non fu bombardato, ma le sue case furono fatte saltare in aria prima del ritiro. Si salvò soltanto una chiesa greco-ortodossa. Dalla cima della collinetta, dopo l’ultima bandiera siriana, c’è mezzo chilometro di terra di nessuno, occupato da una garitta dai caschi blu dell’Onu. Sopra c’è una postazione israeliana, groviglio di antenne e radar.
I drusi dei villaggi circostanti, come Masaade, soffrono per la divisione patita dai loro parenti rimasti di là dal confine: tante volte da una parte all’altra le famiglie si parlano con megafoni chiedendosi notizie dei loro cari. Attraversando il villaggio, con le sue pompe di benzina e case mai finite, a Masaade non si vede una sola bandiera israeliana. Anche gli israeliani hanno lasciato intatti i segni del lutto. Vicino a un bar, su una altura dove Israele porta in visita scolaresche e nuovi immigrati, c’è un chiosco che si chiama “Coffee Annan”, facendo il verso all’ex segretario delle Nazioni Unite. Nel sentiero un artista locale ha fatto sculture con pezzi di missili e tank. Più in là c’è la bocca spalancata di una casa sventrata dalle bombe. Oltre una lapide elementare che piange un figlio di vent’anni.

Il Golan è un gigantesco memoriale. Presso il moshav di Neveh Ativ sorge il cippo alla brigata Egoz, che pattugliava il confine israeliano con Giordania, Siria e Libano. Non lontano c’è la tomba dello sceicco druso El Hazuri. Poi trentuno placche di bronzo con inciso il nome dei caduti. Verso il monte Hermon c’è un boschetto detto Oz77, in ebraico vuol dire “forza”.
Ex basi siriane sono ovunque nel Golan, a uso degli israeliani. Centinaia di giovani carristi si muovono in esercitazione. Campi di mele, aride steppe di rocce vulcaniche, kibbutz sperduti più volte evacuati durante le guerre. E poi Gamla, che domina una serie di crateri e di valli di basalto, in fondo al burrone ci sono i resti di un villaggio ebraico espugnato dall’imperatore Adriano dopo una tragica battaglia.

Che non sia nell’aria un accordo con la Siria per il ritiro dal Golan ce lo dice la città di Katzrin. E’ una perla di modernità, efficienza e futurismo nel cuore del Golan. Chi vive sperduto quaggù, costretto all’autosufficienza, lo fa in nome di un’opera che ritiene ancora in corso: Israele. Le case dai tetti rossi sono in continua costruzione e le palme rigogliose che dividono la strada centrale di Katzrin non lasciano pensare ad alcuna evacuazione. A differenza che nella West Bank, dove la vita dei coloni è “congelata”, qui si costruisce a pieno ritmo. Le villette costano poco: il loro futuro è sempre incerto. Camion pieni di bottiglie del famoso vino del Golan, boicottato da mezzo mondo, escono di continuo. Si piantano nuovi vitigni.

Prima della guerra del 1967, prima che Israele controllasse il Golan e i bordi del lago di Galilea, lo stato ebraico aveva piantato una fila di alberi ai bordi delle strade, a protezione dei passanti uccisi dai cecchini siriani. Quegli alberi sono ancora lì, muti testimoni di una tregua sempre in discussione. Scendendo dal Golan si arriva al lago di Galilea. E di nuovo tutto s’intreccia. L’origine del pionierismo d’Israele, il kibbutz Kinneret, sorge a pochi metri dalla fine del fiume Giordano che scorre su un fondo sabbioso e granuloso strappato al deserto, dove gruppi di protestanti vengono a farsi battezzare nel nome di Gesù. Nel parco dove Yitzhak Rabin e il re giordano Hussein firmarono la pace dell’acqua, di fronte al centro culturale Gavriel, il lago di Galilea si sta ritirando. Triste epitaffio alla pace che fu.


La capitale in attesa del fuoco
Sderot, ogni casa è un fortino. I figli d’Israele giocano nei rifugi sotto l’occhio di Hamas
Fertile, calda e umida è la pianura che porta alla città di Sderot. Finisce improvvisamente la vegetazione e iniziano la pietra e la polvere, che brillano bianche nel cocente sole d’estate. Le case sono color ocra e bianco sul giallo del Negev, il deserto dei sogni di David Ben Gurion. Prima della strada che porta in città c’è una caffetteria piena di soldati in transito per le basi militari. Siamo al confine con Gaza e con le rampe di lancio di Hamas. A pochi chilometri da qui c’è Havat Shikmim, la fattoria di sicomori dell’ex premier Ariel Sharon. Il ranch, un tempo superfortificato, adesso è abbandonato. Sulla tomba dove è sepolta Lily, la moglie di Sharon, cadono i missili di Hamas. E i fiori a cui il generale del Likud era in grado di dare un nome sono bruciati dai razzi islamisti. Hamas reclama il ranch di Sharon, che sorge nei pressi di Huj, un villaggio arabo distrutto nella guerra del 1948.

Il visitatore sa di essere arrivato nella “città più bombardata al mondo”, un puntino sulla mappa israeliana di nome Sderot, perché sulla destra c’è subito un rifugio antimissile. E’ stato colorato da una banda di artisti, per renderlo meno angusto. I bulldozer sono al lavoro per fortificare la città. La gente aspetta l’autobus accanto a un bunker, nella più completa “normalità”. Pochi giorni fa è caduto un altro razzo di Hamas. I miliziani del movimento terroristico sono diventati bravi. All’inizio la gente a Sderot li chiamava “giocattoli”, diceva che erano “fatti in cucina”. Poi i razzi hanno iniziato a uccidere. Dilaniano la carne, producono una schiera di disabili. Rendono invalidi nell’anima.
Sderot in passato era famosa per avere uno dei tassi di disoccupazione più alti di tutto Israele. Oggi questa cittadina di immigrati nordafricani e post sovietici ha il triste record di aver ricevuto il più alto numero di missili da Hamas. Seimila in otto anni di conflitto. E’ il posto più a rischio di tutta Israele. Ma è un destino che ormai abbraccia anche le altre città del sud: Ashdod, Beersheba, Netivot e Ashkelon, che fornisce gran parte dell’elettricità a Gaza ma che viene comunque bombardata dai missili Grad.

Chi ancora un rifugio non ce l’ha e si trova in casa si arrangia come meglio può. Spesso sotto il tavolo da cucina. Che Sderot si stia preparando alla prossima guerra lo si capisce dal fatto che oggi ogni casa in città sta per essere protetta da un rifugio a prova di missile. “Sono in corso d’opera cinquemila nuovi rifugi a Sderot”, dice Noam Bedein, direttore dello Sderot Media Center e già testimone di fronte al Consiglio dei diritti umani dell’Onu nella controversa inchiesta Goldstone sulla guerra a Gaza. Cinquemila nuovi rifugi sono un’enormità per una piccola cittadina che accoglie appena 20mila abitanti. Per questo Sderot è stata ribattezzata “la capitale mondiale dei rifugi antibomba”. Nel cortile della centrale di polizia sono ammassati i resti dei missili. Quelli dipinti di rosso sono di Hamas. Il Jihad islamico invece li colora di giallo. Meital lavora a un progetto privato di tutela dei quartieri di Sderot e ci conferma sul campo la più fosca delle previsioni degli strateghi militari: “Nel mio quartiere ogni casa oggi ha un rifugio in vista del prossimo conflitto. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare in altre zone della città. Tutti devono avere un bunker presso la casa”.

Perché a Sderot uno ha quindici secondi per trovare riparo da quando l’allarme avverte che Hamas ha lanciato un razzo. Gaza è a meno di un chilometro da qui. A Sderot molti automobilisti non indossano la cintura così che possano scappare meglio in caso di allarme. La scuola sulla collina, dopo un parco giochi “rinforzato” con strutture antimissile, porta i segni delle schegge delle bombe e l’esercito l’ha incastonata sotto enormi lastroni di cemento e ferro a protezione degli studenti. “La gente all’estero non si rende conto di quel che avviene qui”, ci dice il sindaco di Sderot, David Buskila, israeliano di origini marocchine come gran parte di coloro che vennero a Sderot, negli anni Cinquanta, a fondare la città. E in città abita anche l’ex ministro della Difesa Amir Peretz.
“Qui ci fanno fare anche le prove per la guerra chimica”, spiega la dottoressa Adriana Katz, che dirige il centro traumi a Sderot, dove arrivano le vittime sotto choc per via dei missili. Di origine romena, laureatasi in medicina in Italia, fuggita dal nostro paese quando le Brigate Rosse facevano un morto al giorno, Katz viene dal mondo della sinistra pacifista, il Meretz di Shulamit Aloni, quelli di Peace Now. “Ho avuto bisogno di tempo per capire che qualcosa mi dava fastidio alle gambe. Quando il fastidio diventò dolore, l’ho subito saputo: mi ero aperta troppo a favore dei palestinesi, tutto quello che facevano gli ebrei mi sembrava ingiusto, fascistoide, colonialista. Mi sono spostata e il mal di gambe se ne è andato. Da qui non ci muoviamo, è un posto duro Israele, ma speciale”. Ogni settimana nel centro per i traumi entrano circa 150-170 persone.

Adriana Katz è un’eroina involontaria di questa guerra che sembra non avere fine, perché da anni si prende cura dei malati psichici, gli invalidi dell’anima che non vogliono scendere dal letto o mettere la testa fuori di casa. Katz ha gli occhi stanchi, sono troppi gli anni trascorsi a curare i feriti da Hamas nella sua minuscola clinica di Sderot. Dalla fine della guerra nel gennaio del 2009 sono caduti già centinaia di razzi sul deserto del Negev.
A ondate, quando la situazione si fa critica, i bambini di Sderot vengono mandati dai parenti che vivono altrove in Israele. Eppure i segni della quiete si vedono. Di notte gruppi di uomini restano a chiacchierare nei fast food e nei bar in città. Inimmaginabile un anno e mezzo fa. Chi guida a Sderot oggi deve ancora farlo con il finestrino abbassato: così si sente bene l’allarme quando squilla. In questo caso l’automobilista deve scendere dall’auto e sdraiarsi a terra, anche se piove. “Una signora fermò l’auto senza scendere dall’abitacolo e oggi deve sottoporsi a riabilitazione perché fu ferita dal razzo”, spiega Adriana Katz. “Io mi rifiuto di sdraiarmi a terra, un istinto me lo impedisce, è troppo umiliante”.

Di solito i terroristi di Hamas sparano su Sderot e dintorni di mattina, quando c’è la massima concentrazione di bambini diretti a scuola. Molti sopravvissuti all’Olocausto, in città, devono prendere sedativi e tranquillanti. Si parla senza alzare la voce nelle case, perché l’allarme deve sempre essere udibile. In città ci sono grandi scorte di medicinali per il trattamento dello choc post missile. Si calcola che oltre la metà della popolazione di Sderot soffra di stress o di altre sindromi psichiatriche. “Centrare il bersaglio non è la cosa fondamentale – dice Igal Hecht, il regista che, nel 2006, ha firmato un lungo documentario dal nome Qassam – quello che conta è l’effetto psicologico”. Dopo anni di missili sulla città, fasce di bambini sono in “regressione”, non vogliono dormire più da soli, vanno male a scuola e hanno il timore di lasciare le case.

Eccola Sderot, involontaria capitale dei farmaci per la psiche dilaniata. Nomi fantasiosi che per la gente del posto sono una mano santa: Lorivan, Clonex e Valium, i tranquillanti di tipo benzodiazepine subito dopo un bombardamento; Seroxat, Cipralex e Cymbalta, gli antidepressivi per la terapia più lunga; sedativi tipo Bondormin e Miro; e spesso, purtroppo, si verificano casi di autentiche psicosi, trattate con neurolettici (Zyprexa, Geodon, Clopixol). Due settimane fa, nel vicino ospedale di Ashkelon, c’è stata l’ennesima esercitazione in vista della guerra, la verifica delle sirene, il Magen David, i vigili del fuoco, ospedali e polizia. La nuova maschera antigas, appena distribuita alla popolazione, ha un nome gentile: Candy. Quest’angosciante strumento ha fatto la sua comparsa nel 1991, quando dall’Iraq Saddam Hussein fece piovere razzi sul centro d’Israele. Un parco a Sderot è intitolato ad Afik Zahavi-Ohayon, aveva quattro anni quando nel giugno del 2004 divenne la prima vittima in città di Hamas. Presso la “givat”, la collina, si vede Beit Hanoun. E’ territorio di Hamas, ad appena ottocento metri in linea d’aria. Villette dai tetti rossi, ben ordinate e confortevoli, sono in costruzione sulla collina estrema di Sderot. Si affacciano sugli ascari di Hamas intenti a distruggere Israele. E in lontananza si vede la centrale di Ashkelon.

A febbraio Israele ha annunciato un nuovo sistema antimissile noto come Iron Dome, significa “Cupola di ferro”. E’ la grande speranza di Sderot, ma molti analisti hanno seri dubbi che riuscirà a proteggere la città. Il progetto è costato un miliardo di dollari. Contro i venticinque dollari che costa ad Hamas un solo Kassam. Iron Dome impiega trenta secondi per intercettare un missile. Va bene per Tel Aviv, ma forse è lenta per i kibbutz del Negev o della Galilea del nord. Il premier Netanyahu lo ha chiamato “miracolo tecnologico”, e Yedidia Yaari, a capo della società Rafael che ha costruito il sistema, ha confermato che il sistema di intercettazione di missili “Cupola di ferro” fornirà “una risposta alla minaccia di Katiuscia, Qassam e Grad”, ma ha anche specificato che “non esiste alcun sistema di protezione totale”. Si parlava anche di acquistare il sistema “Phalanx Close-In” che gli americani usano a Baghdad per difendere la Green Zone. Un altro progetto si chiama David Slingshot, significa “Fionda di Davide”. Di certo si sa che Hezbollah e Hamas hanno oggi nuovi missili iraniani che possono raggiungere Tel Aviv. L’ultima volta era successo il 18 gennaio 1991, alle tre del mattino, quando a cadere sulla città più moderna d’Israele erano stati gli scud di Saddam.
Il sindaco di Sderot, David Buskila, ci spiega che “c’è una possibilità reale che si scateni un nuovo conflitto con Hamas. Nel futuro ci aspettiamo un nuovo lancio di missili. Abbiamo costruito 2.500 nuovi rifugi fino a ora e ne costruiremo altri. Nuovi rifugi saranno finiti per le scuole entro l’inizio dell’anno scolastico. Spero di vedere giorni migliori, anche se non ne sono sicuro”. Eppure, mentre ci si prepara alla prossima guerra, la gente a Sderot non lascia le proprie case.

Le pochissime famiglie, duecento in tutto, che hanno abbandonato questa città in trincea lo hanno fatto perché potevano permetterselo. Solo i ricchi se ne vanno. Sderot è anonima e i giovani ambiscono a partire. Non c’è tempo in città per l’estetica. L’esercito e la protezione civile stanno costruendo rifugi senza tregua. “Ci ricordano quello che è stato e quello che sarà”, dice sconfortata la dottoressa Adriana Katz. Anche nella sua clinica c’è un rifugio, che sembra una sala d’attesa: un tavolino e un piccolo divano con una coperta gettata sopra. “La gente cerca di reimparare a vivere, torna a circolare perfino con i finestrini della macchina chiusi perché fa tanto caldo e serve il condizionatore. Tanti fanno fatica a separarsi dalle camere blindate e la notte dormono là. Ci sono case dove questi rifugi sono diventati stanze per i giochi, lì i bambini sono più tranquilli.

Ogni tanto un allarme fa tornare in mente i tempi non lontani e allora torna la paura, l’insonnia, la mia clinica si riempie di gente piena di angoscia. E’ come se non ci fosse mai stata alcuna terapia, si ricomincia da capo. C’è un povero venditore di meloni che non può più gridare al megafono per vendere la sua merce, perché il suono è troppo simile a ‘Tzeva adom’, la sirena d’allarme, e c’è qualcuno che è svenuto a sentirlo”. Quando la sirena non suona da troppo tempo la gente pensa persino che sia rotta. In questa atmosfera di finta quiete, la gente aspetta. “Che cosa? Il ritorno dei missili e non c’è nessuno che creda diversamente, è una convinzione generale che quello che è stato è quello che sarà. E su questo non si scherza. Insomma, qui siamo seduti su una botte di esplosivo. L’unica domanda è quando salteremo in aria”.