Rachele Mussolini (testo raccolto da Benedetto Mosca con la collaborazione di carlo Palumbo), Oggi, n. 47, 24 novembre 2010, pag. 72, 24 novembre 2010
Biografia di Rachele Mussolini
Come sono nate queste memorie
Rachele Mussolini, 36 anni, porta lo stesso nome della nonna paterna, la famosa donna Rachele, ed è figlia di Romano, quartogenito del capo del fascismo. È nata dal secondo matrimonio del padre, quello con l’attrice Carla Puccini. Alessandra, 47 anni, deputata Pdl, è invece figlia di Romano e della sua prima moglie, Maria Scicolone. Questa è la prima volta che Rachele parla: «Per farlo non potevo che raccontare di mia nonna, la quale ha avuto una vita straordinaria al fianco di un uomo che, comunque lo si giudichi, ha segnato la storia». Rachele junior ha accettato di parlare 53 anni dopo che lo ha fatto sua nonna. Fu la giornalista Anita Pensotti, infatti, nel 1957, a raccogliere le confidenze della moglie di Mussolini e a pubblicarle su Oggi in 16 puntate. Fu un enorme successo: Oggi balzò a un milione di copie, le memorie di donna Rachele furono tradotte in più di 30 Paesi e in tutto il mondo ebbero 110 milioni di lettori. Quel memorabile servizio giornalistico è stato raccolto nel libro Benito, il mio uomo (Rizzoli, 1958). Donna Rachele è stata testimone e protagonista del suo tempo. «Partita dall’osteria romagnola in cui lavorava alle dipendenze del suocero Alessandro Mussolini», dice sua nipote, «ha seguito il marito nella scalata al potere. Poi ha visto la storia voltare pagina, con suo marito e quell’Hitler da lei sempre detestato che precipitavano... ». Rachele jr ha gli stessi luminosi occhi verdi della nonna che affascinarono Mussolini. Quando studiava all’università fu eletta Prima Miss dell’Anno (titolo creato da Enzo Mirigliani nell’ambito di Miss Italia), e avrebbe potuto partecipare alla finale di Salsomaggiore. Rachele jr, però, ha preferito laurearsi in Sociologia e poi mettersi a lavorare. Oggi è impiegata nella segreteria del Pdl a Roma.
Prima puntata
Il 25 maggio 1974, quando nacqui a Wimbledon in Inghilterra dall’unione di mio padre Romano Mussolini con Carla Puccini, nonna Rachele non solo non fece salti di gioia, ma nei primi tempi si mostrò molto fredda. Per lei, io ero «la figlia del peccato». Mio padre, infatti, non aveva ancora ottenuto il divorzio da Maria Scicolone, dalla quale aveva avuto due figlie: Alessandra nel 1964 ed Elisabetta nel 1966. Se fossi nata in Italia non mi avrebbe potuto riconoscere, ecco perché ho visto luce in Inghilterra. Mio padre mi ha raccontato che, un giorno in cui lui era andato a trovarla a Villa Carpena, donna Rachele gli disse: «Evidentemente non è colpa tua. Quella di non saper resistere al fascino femminile è una caratteristica di tutti i Mussolini maschi». La nonna non aveva torto. Seduttori o sedotti, i Mussolini non potevano fare a meno di corteggiare ogni donna. Prima di Benito, così era stato suo padre, il fabbro socialista Alessandro; così era anche mio padre Romano. E le mogli si dovevano rassegnare, a cominciare da mia nonna Rachele. La quale però, dopo le proteste e gli sfoghi, finiva per difendere il suo Benito. Di lui diceva: «Ha tutti i difetti del mondo, ma in tanti anni non ha mai passato una notte fuori di casa, né mi ha
mai fatto mancare niente».
Con quel «mancare niente» non si riferiva solo ai beni
materiali, ma anche al fatto che Benito aveva sempre compiuto regolarmente i suoi «doveri coniugali», come una volta si diceva. Quanto alle «notti fuori», sapeva benissimo che suo marito non incontrava le altre donne di notte, ma quasi sempre nel pomeriggio, a Palazzo Venezia. Di quegli incontri c’è un elenco particolareggiato nelle memorie dell’usciere Quinto Navarra. Pochi sanno che quel libro, in realtà, è stato rivisto e sistemato da uno dei più grandi giornalisti italiani, Leo Longanesi, famoso per la sua beffarda fantasia. In ogni caso non era questione di numeri. Era il fatto in sé, il principio che umiliava donna Rachele.
TACEVA PER NON ESSERE MESSA DA PARTE DA LUI
Su mia nonna ho letto una grande quantità di libri e di articoli di giornale. Ho letto anche i suoi diari e i due libri di memorie che ha scritto, oltre naturalmente ai ricordi di mio padre (Il Duce, mio padre, Rizzoli, 2004) e alle famose interviste di Anita Pensotti pubblicate da Oggi nel 1957. Adesso, a tanti anni di distanza, di donna Rachele parlo io. E dico subito che definirla straordinaria è riduttivo. La sua è una figura molto complessa, difficile da chiudere in uno schema. Era una donna dell’Ottocento ma, al tempo stesso, è stata protagonista del Novecento accanto a Mussolini. Fra i due c’era un misto d’amore e di complicità, ma anche di grande spregiudicatezza. Lui faceva la sua vita e incontrava le sue donne; lei aveva accettato di vivere, come dire?, su una specie di binario parallelo: sapeva e talvolta addirittura vedeva come lui la ingannava, ma solo in casi eccezionali interferiva nelle sue azioni. Quando lo fece (e, al proposito, io racconterò due o tre cose inedite che so), si comportò come un’incendiaria, ma all’ultimo momento fece sempre un passo indietro perché aveva capito che, eliminando la rivale, avrebbe vinto una battaglia, ma perso la guerra. Mussolini la avrebbe messa da parte
QUANDO RACHELE RISCHIÒ L’UMILIAZIONE PIÙ GRANDE
Una cosa è certa: Benito è stato il grande amore della sua vita. Qualcuno ha cercato dì falsare questa realtà attribuendole «vendette» sotto forma di ben dissimulati tradimenti, ma si tratta di menzogne. Mia nonna non tradì mai il marito; vero è piuttosto che nel momento più buio della sua vita, quando Mussolini era stato arrestato e per qualche tempo imprigionato a Ponza, ci fu chi cercò di farle violenza. Mi riferisco al famigerato questore Polito, il falso amico di cui dirò più avanti. «Altro che vendette», mi diceva mio padre, «altro che inganni. Tua nonna si era innamorata di Mussolini quando lui era un perfetto sconosciuto e a lui ha dedicato tutta la sua vita». Papà aveva ragione. La prima volta che mia nonna sentì -sono parole sue - «il cuore farle le capriole nel petto», aveva otto anni, e il responsabile della sua emozione era Mussolini.
NON AVEVA LE SCARPE
Rachele era la più piccola di sei fratelli (quattro femmine e due maschi) e la sua famiglia era poverissima. Per lei - la Chellina, come la chiamavano - andare a scuola era un lusso da signori. In casa erano tutti analfabeti, e quando lei si impuntò per frequentare la prima elementare fu accusata dalle sorelle maggiori di voler studiare per evitare il lavoro nei campi.
A raccontarlo si rischia di non essere creduti. Nelle campagne e non solo, quando donna Rachele era bambina, si viveva in un modo che oggi è difficile immaginare. C’è però la testimonianza diretta di mia nonna, che un’idea di quel tempo la da molto bene. Ogni mattina lei, scalza perché non aveva scarpe e in casa non c’erano soldi per comprargliele, si faceva sette chilometri a piedi per raggiungere la piccola scuola di Dovia in quel di Predappio. Nella buona stagione camminava a piedi nudi, quando veniva il freddo la madre le avvolgeva due stracci attorno ai piedi. E quando finalmente arrivava alla porta della piccola scuola, la maestra le andava incontro porgendole un paio di pianelle che conservava per lei in un armadietto. Rosa Maltoni, come l’insegnante si chiamava, non voleva che gli altri alunni (quattro in tutto) vedessero che la Chellina non aveva le scarpe.
LA RIVEDE DOPO DIECI ANNI ED È UN COLPO DI FULMINE
Rosa era la moglie del fabbro Alessandro Mussolini. «Un giorno che si ammalò», ha ricordato mia nonna, «a sostituirla venne un ragazzo bruno, il suo figlio maggiore, che studiava per diplomarsi maestro». Quel ragazzo era Benito Mussolini. E poiché la Chellina era irrequieta, incapace di rimanere ferma a lungo, il giovane supplente la costringeva a stare seduta nel banco affibbiandole di tanto in tanto una bacchettata sulle mani. E lei? Invece di mettersi a piangere guardava estasiata i suoi occhi «magnetici, quasi fosforescenti». Ha raccontato mio padre: «Quando il babbo di Rachele morì, lei fu ritirata dalla scuola e mandata a lavorare come donna di servizio. Benito intanto era emigrato in Svizzera e per dieci anni non si incontrarono più. Quando però lui rientrò in Italia e si rividero, si riconobbero immediatamente». Ricordava mia nonna: «Benito aveva i baffi e un accenno di pizzetto. Me lo trovai davanti all’improvviso, mentre uscivo da Messa, e ancora una volta fui subito colpita dai suoi occhi ardenti». Intanto era successo che il padre di Benito, stanco di fare il fabbro, aveva aperto una piccola trattoria a Dovia. In cucina aveva messo la mamma della Chellina, Anna Lombardi, che era stata una sua antica fiamma. Doveva essere solo per qualche tempo; poi invece lui si era trovato bene, lei anche, e così avevano formato una coppia molto affiatata. Ci sarebbe stato posto anche per Benito, al quale però la prospettiva di fare il ristoratore era totalmente estranea. Anzi, a detta di mio padre «provocava in lui una sorta di smarrimento».
PISTOLA IN PUGNO, CHIESE IL CONSENSO PER SPOSARLA
Rachele serviva ai tavoli. Era diventata una ragazza molto bella, con lunghe trecce bionde che a volte annodava sul capo e «occhi che sembravano biglie di vetro celeste». Aveva anche i suoi corteggiatori, e quando Benito si trasferì nel Trentino (che allora era una provincia austriaca) fu presa dal panico. Perché tra i clienti della trattoria ce n’era uno, il geometra Olivieri di Ravenna, che aspettava solo di avere campo libero per farsi avanti. È vero che Benito, prima di partire, le aveva detto con decisione: «Aspettami, quando torno ti sposo»; ma è vero anche che lei non sapeva se avrebbe avuto la forza di tenere a bada non tanto il geometra Olivieri, quanto Alessandro Mussolini. Il padre di Benito premeva infatti perché lei accettasse la proposta di matrimonio di Olivieri. «Ha un sacco di soldi», le diceva, «ha anche delle terre. Devi assolutamente dirgli di sì e scordarti di Benito, che è una testa matta e non può certo darti un avvenire sicuro». Alessandro Mussolini non si rendeva conto delle ambizioni del figlio, il cui comportamento lo lasciava molto perplesso. A mia nonna era rimasta in mente una frase che, un giorno, Alessandro aveva detto a Benito: «Non vuoi fare il maestro, non vuoi fare l’impiegato comunale. Insomma, che cosa vuoi? Il posto di re è già occupato, ti accontenterai di fare il primo ministro?». Morì troppo presto, poveretto, ma io dico che da lassù rimase sbalordito vedendo che la sua battuta ironica si era avverata: suo figlio non era diventato re, ma primo ministro sì. Comunque, da vera testa matta, un giorno mio nonno Benito si presentò a Rachele, la prese per un braccio e la trascinò davanti ai genitori. Aveva in tasca una rivoltella che a un certo punto tirò fuori, e mio padre mi diceva di non essere mai riuscito a farsi dire da donna Rachele le parole esatte che Mussolini rivolse ai genitori in quell’occasione. Credo che la versione più vicina alla realtà sia questa: «Se non ci date il consenso per sposarci, qui ci sono sei colpi: due per Rachele e quattro per me». Poi aggiunse qualcosa di molto simile a: «Se non possiamo stare insieme, noi due ci ammazziamo».
SI DICEVA CHE EDDA FOSSE FIGLIA DELLA BALABANOFF
Cosa dovevano fare quei due poveretti dei vecchi Mussolini? Diedero il consenso al matrimonio (che poi era la convivenza) di Benito con la Chellina, ma sui motivi dell’opposizione del mio bisnonno alla loro unione continuarono per un bel po’ a girare strane voci. Erano solo calunnie, ma io per amore di cronaca le riporto ugualmente. Si diceva che la Chellina fosse in realtà figlia di Alessandro e quindi sorellastra di Benito; oppure che anche il vecchio Alessandro avesse messo gli occhi su di lei e non la volesse «cedere» al figlio. Voci, ma per mia nonna il tormentone delle «voci» durò tutta la vita. Una delle più insistenti riguardava la relazione tra mio nonno e l’ebrea russa Angelica Balabanoff, cominciata quando lui si trovava in Svizzera agli inizi del 1900 e proseguita poi nel Partito socialista e nella redazione de L’Avanti! Mio nonno giurava: «Se finissi su un’isola deserta con la Balabanoff e una scimmia, mi metterei con la scimmia». Intanto però la primogenita di Benito e Rachele -Edda, nata nel 1910 - era stata iscritta all’anagrafe come «figlia di Benito Mussolini e
madre N.N.». È vero che i miei nonni non erano sposati, che Rachele era minorenne e che allora, in situazioni del genere, si rischiava la galera; molti però si erano sentiti autorizzati a pensare che quella «madre N.N.» fosse in realtà la Balabanoff.
Mia nonna, umiliata, non poteva reagire. Faceva finta di non sapere, di non sentire. Fino a che un giorno sbottò in pubblico: «So io quanto ho patito per metterla al mondo, la mia Edda, mica lei!». Nonostante tutto, però, donna Rachele non provò mai odio per la Balabanoff, che giudicava una donna sconfitta e tradita dall’uomo che aveva amato. Sbagliava, perché Mussolini continuava ad avere un debole per lei, della quale diceva: «Devo molto ad Angelica, perché la sua generosità non conosce limiti, come la sua amicizia... Se non l’avessi incontrata in Svizzera, sarei rimasto un piccolo attivista di partito, un rivoluzionario della domenica».
L’INTELLETTUALE CHE MIA NONNA NON SOPPORTAVA
Mia nonna odiava invece a morte un’altra intellettuale ebrea: Margherita Sarfatti, una donna affascinante che aveva avuto una grande influenza su Mussolini e che a un certo punto gli dedicò un libro, Dux, divenuto rapidamente un best setter internazionale con 17 ristampe in Italia e traduzioni in 18 Paesi.
Quel libro fece conoscere mio nonno in tutto il mondo: solo in Giappone se ne vendettero più di 300 mila copie. Tuttavia, bestseller o no, a mia nonna la Sarfatti non andava giù. Lo diceva a tutti e mio padre ricordava che lo disse anche a lui. «Avevo una decina d’anni», mi ha raccontato, «quando nel giardino di Villa Torlonia a Roma la nonna mi fece questa confidenza: "Vedi, Romano, di tutte le signore che hanno girato attorno a tuo nonno, io sono stato gelosa soltanto di quelle che hanno occupato un posto nella sua mente. Il resto non mi interessava"».
Sempre in quel periodo, una mattina mio padre vide la nonna che in giardino si allenava a fare il tiro a segno con la pistola. Lei fu seccata di essere stata sorpresa; quindi gli spiegò: «Sto allenandomi per ammazzare la Sarfatti».
QUEL CHE IO SO SULLA TRAGICA VICENDA DALSER
Di recente c’è stato un film, Vincere di Marco Bellocchio, che ha ricostruito in modo molto forte e suggestivo un’altra relazione di mio nonno, forse la più drammatica assieme a quella con la Petacci. Mi riferisco alla tragica storia di Ida Dalser, figlia del sindaco di un paese in provincia di Trento, alla quale mio nonno fu legato dal 1913 al 1915, quando lei diede alla luce un bambino, Benito Albino. Mia nonna e mio padre hanno parlato ampiamente di questa storia nelle loro memorie. Ne parlerò anch’io; adesso però ne salto i dettagli per arrivare al commento finale di donna Rachele. Con la Dalser, che si presentava a tutti come «la moglie di Benito Mussolini», lei era arrivata a scontrarsi fisicamente, ma diceva: «In fondo, io a quella donna devo essere grata, perché è anche merito suo se mi sono sposata».
Non aveva torto: Benito e lei, prima che il «ciclone Dalser» si abbattesse su di loro, vivevano in libera unione, e fu anche per essere lasciati in pace che trasformarono quella condizione in un regolare matrimonio.
MATRIMONIO IN CINQUE MINUTI NELL’OSPEDALE
Sono stata in molti dei luoghi in cui si è svolta la saga dei miei nonni. Ho visto alcuni degli edifici in cui hanno abitato, ho confrontato le loro vecchie fotografie con quelle - più recenti -di mio padre ritratto negli stessi posti. Ho cercato di immaginare quel tempo e quelle situazioni lontane. Il matrimonio di Benito e Rachele, per esempio, che venne celebrato civilmente durante la Prima guerra mondiale in una stanzetta disadorna dell’ospedale di Treviglio, vicino a Milano, dove Mussolini si trovava in
convalescenza dopo essere stato ferito in un’esercitazione sul Carso. Ecco la scena: sul piccolo calendario del 1915 appeso al muro, accanto alla data del 17 dicembre qualcuno ha annotato a matita: «Oggi matrimonio di Mussolini Benito con Guidi Rachele». Il rito civile durò meno di cinque minuti: lo ha ricordato la nonna allo zio Vittorio, il secondo dei suoi cinque figli (la prima era la zia Edda), nato il 27 settembre 1916. Torno per un momento alla storia della Dalser. Ancora prima del matrimonio con Rachele, mio nonno volle occuparsi del bambino che aveva avuto da quella donna e davanti al notaio Buffoli di Monza riconobbe come proprio figlio Benito Albino Dalser, al quale garantì un sostegno di 200 lire al mese. Non erano tante nemmeno per quell’epoca, ma forse lui pensava di avere messo tranquilla, così facendo, la Dalser. Invece fu peggio: per lei infatti, con quell’atto davanti al notaio, mio nonno aveva reso ufficiale il loro legame, e da allora in avanti si considerò più che mai l’unica vera «signora Mussolini».
MIO NONNO BENDATO SEPARÒ LE DUE RIVALI
L’inevitabile scontro fra lei e mia nonna non tardò a verificarsi. Avvenne nello stesso ospedale militare dove mio nonno era convalescente. Mio padre ha descritto bene quello che accadde, e a me ha raccontato anche qualche particolare in più.
Ecco come ricostruiva il fatto mettendosi, come lui diceva, «dalla parte della nonna», la quale raccontava: «Lì per lì non riconobbi la Dalser che, entrando come una furia nella stanza dove mi trovavo con Benito, mi si scagliò addosso urlando: "Sono io la moglie di Mussolini! Solo io ho il diritto di stargli vicino!". C’erano dei soldati nella stanza, anche loro convalescenti, che si misero a ridere. La Dalser continuava a insultarmi e a un certo punto non ci vidi più: mi gettai addosso a lei tempestandola di pugni, e alla fine le misi le mani attorno al collo. Cominciai a stringere e avrei proseguito se Benito, che tutto bendato com’era sembrava una mummia, non si fosse faticosamente alzato dal letto per fermarmi». La scena era grottesca: sembrava una di quelle interpretate da Stan Laurel e Oliver Hardy che, anni più tardi, avrebbero divertito mio nonno nella sala cinematografica privata di Villa Torlonia, dove per suo desiderio venivano spesso proiettati i film dei due comici americani.
Stanlio e Ollio, e Charlie Chaplin: le pellicole predilette dai ragazzi Mussolini e dallo stesso Benito erano le loro. Ma torniamo alla rissa in ospedale. Per separare donna Rachele dalla Dalser, oltre a mio nonno dovettero intervenire un medico e due infermieri. Nel suo diario mia nonna conclude così: «Appena dovetti allentare la presa, la Dalser scappò via e io scoppiai a piangere».
QUANDO NELLA VITA DI BENITO COMPARE CLARETTA
Passando da una crisi all’altra, la Dalser sprofondò sempre più nella depressione fino a essere dichiarata pazza e rinchiusa in manicomio a Venezia. Morì a 57 anni, e terribilmente simile alla sua fu la sorte di suo figlio, che aveva studiato in un collegio dei Barnabiti e poi si era arruolato in Marina finendo «in missione» fino a Shanghai. Benito Albino fu internato in quello che allora era il manicomio di Mombello, presso Milano, dove morì nel 1942 a 27 anni. Ci fu, diceva mio padre, una violenza inaccettabile nei confronti di quei due poveretti. Pensava che il controllo di quella atroce storia, a un certo punto, fosse sfuggito a mio nonno per passare nelle mani della polizia segreta. E poiché la Dalser era irriducibile, prevalse l’orribile idea che il manicomio fosse il posto più adatto per neutralizzarla. Molti mi domandano: ma quando tua nonna seppe della relazione più famosa di Mussolini, quella con Claretta Petacci? E chiaro che, per ragioni anagrafiche, posso rispondere solo in base a quello che mio padre mi ha raccontato, ma di quella vicenda conosco particolari decisamente curiosi.