Antonio Vettese, Oggi, n. 47, 24 novembre 2010, pag. 44, 24 novembre 2010
IO, ARMATORE ALLE PRESE CON I DISPERATI DEL MARE
La barca a vela che si vede in queste foto, dolorosamente spiaggiata sulla sabbia di Le Castella, all’interno del parco di Capo Rizzuto, si chiama Giuditta. È un Sun Odyssey 43 ed è lunga meno di 13 metri. L’avevo comprata tre anni fa da una compagnia di charter, che l’aveva noleggiata per sei. L’avevo scelta perché era l’unica disponibile in Mediterraneo con il nome di mia figlia e di mia madre e costava una cifra ragionevole. Volevo rispondere a una vecchia tradizione del mare, i nomi delle barche si scelgono tra quelli di assoluta fantasia oppure di semplice affetto: madri, padri, figli. Comprando questa barca ero arrivato un poco al limite delle mie possibilità economiche: compiuti i cinquant’anni mi ero preso un rischio, su cui investire i risparmi. Fino a quel momento avevo posseduto solo piccole barche da regata. Dentro quella idea c’era tutta la mia passione per il mare: infinita. Una passione che mi ha portato a vivere per il mare e sul mare e a lavorare per venti anni nella redazione della più antica rivista di nautica da diporto, di cui per quindici sono stato anche il direttore responsabile. Per me Giuditta non era affatto un oggetto di ostentazione, né di conquista.
MOMENTI DI GLORIA
Era soltanto il mio strumento per fare le vacanze in famiglia, per navigare, per esplorare. Ovvero, fare quello che con barche a prestito o a noleggio non potevo. Il programma era di tenerla per cinque, sei anni. E invece... La vicenda è di per sé assurda: era ben protetta in un porto della Grecia vicino ad Atene dove la lasciavo per il secondo inverno, con la missione il prossimo anno di portarmi verso Oriente, sulle coste del Dodecanneso e della Turchia. La prossima primavera avrei affrontato il primo trasferimento, superando le isole Cicladi. Gli «scafisti» le hanno messo una bandiera americana e il bizzarro nome di Gloria. Così Giuditta, dopo le mie speranze e i miei sacrifici, ha portato in Italia quelli di una settantina di afghani, curdi, iracheni.
UN SACRIFICIO INUTILE
Ero a Istanbul quando la Capitaneria di porto di Crotone, al comando di Nicola Preda, mi ha chiamato. Chissà come, ma già quando ho visto il prefisso sul cellulare ho subito capito che erano grane. Con tatto e professionalità mi hanno detto che su una barca da poco rintracciata avevano trovato dei documenti che avevano consentito loro di risalire fino a me. Dopo un paio di giorni l’ho vista sul posto, praticamente affondata dalla tempesta, dopo un tentativo di riportarla in mare durato tutto un giorno, ma con la mia esperienza ho capito che era l’ultimo saluto. Adesso, se mi concentro, riesco a sentire il suo motore spingere e urlare sotto quel carico umano, per cui provo grande pietà.
Sono perfino sereno se immagino tutta quella gente che indossa i nostri vestiti e usa i miei asciugamani. Temo che
il sacrificio di Giuditta però servirà a poco: con ogni probabilità saranno rispediti a casa, che forse non hanno nemmeno più. Adesso la materia diventa difficile: furto, traffico illegale. Ho subito chiesto aiuto a vecchi amici esperti del settore, l’assicuratore bolognese Gianni Paulucci con suo figlio Christian e l’avvocato genovese Giandomenico Boglione. Sono allibiti, nella loro vita professionale ne hanno viste e sentite di tutti i colori... ma una avventura come questa mai.
INEDITE MODALITÀ
I flussi sono cambiati e gli arrivi a bordo di barche come la mia sono sempre più numerosi. Ho letto i primi commenti sui giornali: si parla di yacht milionario, di vacanze facili, di soldi semplici. So bene che non è così. Purtroppo quando si parla di barche da diporto c’è sempre la voglia di esprimersi con un sottinteso di maldicenza, come fosse proibito avere la passione del mare e dedicargli la vita e il tempo libero.
In realtà i porti sulle coste italiane sono pieni di appassionati che come me hanno coltivato il loro sogno per anni e che nulla hanno a che vedere con i ricconi evasori. Penso davvero che sia ora di finirla con questo modo di essere biecamente «benpensanti», solo per conquistare un consenso sociale. Forse è meglio iniziare a pensare che questi eventi sono il sintomo d’altro. Per esempio, quello della fatica dell’Occidente a conservare il suo posto nel mondo, anche a difendersi da una pressione forte. E poi non fanno rabbia i clandestini, ma le mafie che vivono sulla loro pelle.