Andrea Marcenaro, Panorama 25/11/2010, 25 novembre 2010
LA PARABOLA DEI PROFESSIONISTI DELL’ANTIFANGO
Ma certo che sì. Ci mancherebbe altro che nel mondo libero non funzionassero le macchine dell’invidia, della competizione sotto la cintura o dell’odio, rivendicato mai, per carità, eppure pulsante sottotraccia. Cioè, per conseguenza, che non operassero le fabbriche del fango lanciato in pubblico. Solo che... Solo che, a decidere del valore dell’accusa sulla quantità del fango lanciato dall’ultimo eventuale lanciatore, e sulla sua qualità, è sempre il pulpito da cui l’accusa parte. Ecco. Nel caso che, a pronunciare l’omelia contro gli ultimi arrivati fra i tiratori di mota, siano impenitenti lanciatori di melma (di merda, si dovrebbe più correttamente dire: «la politica è sangue e merda», «mettere la merda nel ventilatore», ebbe ad avvisarci il grandissimo Rino Formica), nel suo piccolo, allora, l’ultimo arrivato s’incazza.
Se poi, a troneggiare dal pulpito da dove parte la denuncia, è l’ingegner-editore Carlo De Benedetti, l’accusato ribolle. E se il suddetto osa sermoneggiare, addirittura, tramite il prevosto Giuseppe D’Avanzo, moralizzatore in servizio permanente effettivo presso il gruppo Espresso-De Benedetti-Scalfari-Repubblica, altro che incazzarsi, allora, l’incriminato può esplodere. E fa male.
Perché bisognerebbe, in ogni caso, sapere apprezzare la tradizione. Che è un valore condiviso. E, quanto a tradizione nel lancio della merda, il suddetto gruppo non ha niente da invidiare a nessuno. Occorrerebbe forse una bella mappa chiarificatrice. A memoria, per nulla esauriente, a volo d’uccello, eppure tant’è.
La signora Camilla Cederna, milanese, purtroppo ormai defunta, venne molto apprezzata in vita per l’eleganza, la capacità di pungere con la penna, e per la determinazione con cui mise al muro, abbattendolo quindi a pallate di cacca, il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Innocente, come perfino le pietre ormai sanno. A tal punto innocente che i radicali Marco Pannella ed Emma Bonino, sostenitori accaniti della stessa Cederna nel corso della sua campagna, si recarono poi dall’ex presidente per chiedergli ufficialmente scusa. Antelope Cobbler, la Lockheed, la corruzione, tutte balle. Condite con particolari piccanti su moglie e figli, orgette e coma di lusso. Le cose avvennero tanto tempo fa e le domande di venia troppo tempo dopo, dal momento che Leone venne dimesso con infamia il 15 giugno 1978 e le scuse radicali arrivarono nel 1998, passati vent’anni. Ma arrivarono, bene o male. Ciò che invece non si sa, o meglio, che si sa benissimo, ma si tende a trascurare, è che la signora Cederna, spentasi nel 1997, mai trovò la voglia e il tempo per presentarle a sua volta. Doveva essere lo stile della casa. Il gruppo Espresso manco ci pensa più, dopo 32 anni. Fango senza sangue comunque. Perché in Sicilia dell’eterna lotta tra la mafia e l’antimafia il vento della calunnia ha seminato morte e tragedie. Ricordate il caso del maresciallo Antonino Lombardo? Era il 4 marzo 1995 e il solito Michele Santoro aveva ospite in studio (a quel tempo il tribunale dell’inquisizione mediatica si chiamava Tempo reale) Leoluca Orlando. Proprio lui, il sindaco di Palermo, quello che aveva instaurato in Sicilia una sorta di dittatura ideologica: o stai con me o fai il gioco della mafia. Il maresciallo Lombardo comandava la stazione dei carabinieri di Terrasini e stava per partire alla volta degli Stati Uniti per sentire, assieme ai magistrati della procura, un mafioso di antico e tenace lignaggio: Gaetano Badalamenti, il boss che aveva condiviso la carriera criminale con Tommaso Buscetta e quindi l’unico che potesse confermare o smentire le accuse di «don Masino» a Giulio Andreotti. Il maresciallo Lombardo lo conosceva da vecchia data perché Badalamenti era nato e cresciuto dalle sue parti, a Cinisi. Poteva dunque parlargli con il suo linguaggio e poi, chissà, convincerlo anche a tornare in Italia per un confronto con Buscetta. Ipotesi azzardata, per quei magistrati che volevano riscrivere la storia d’Italia. E così bastò una palata di fango in diretta televisiva per allontanare ogni pericolo. Intervistato da Santoro, Orlando forzò leggermente il senso della domanda e disse che a Terrasini c’era il maresciallo dei carabinieri che intratteneva rapporti poco chiari con la mafia. Il giorno dopo, per la vergogna, Antonino Lombardo si appartò nell’atrio della caserma e si sparò un colpo di pistola alla tempia.Negli anni della fanghiglia palermitana c’era stato già un altro morto. «Mascariato», infangato senza risparmio di allusioni e insinuazioni da un libro di Nando Dalla Chiesa, figlio del generale ammazzato in via Carini, si era ucciso Rosario Nicoletti, segretario regionale della Democrazia cristiana. Era il 17 novembre 1984.
Ma la campagna di odio più violenta fu quella che prese di mira Alberto Di Pisa, giovane sostituto procuratore al tempo di Giovanni Falcone. Lo accusarono di essere «il Corvo», l’autore cioè di una lettera anonima al vetriolo messa in circolazione per screditare il pool antimafia che, fra tante difficoltà, preparava il maxi-processo. Intrappolato in un processo surreale. Di Pisa ne è uscito pulito come l’aria, tanto che più di un anno fa è stato nominato procuratore capo di Marsala, nell’incarico che fu di Paolo Borsellino. Ma su di lui si esercitarono le penne più spieiate e intransigenti, come quella di Giuseppe D’Avanzo, cronista principe di Repubblica. Sentite che cosa scriveva in quei giorni nelle sue corrispondenze da Palermo: «Di Pisa è soltanto un uomo frollato dalla lunga attesa di un pubblico riconoscimento, di popolarità e potere, un piccolo uomo sbriciolato dall’invidia e dalla gelosia, precipitato nel gorgo di un risentito rancore». Si dirà: ma almeno, dopo tanti anni, D’Avanzo, che vede sempre il fango degli altri, le sue scuse le avrà pure presentate a Di Pisa. Macché. Nemmeno un bigliettino per gli auguri di Natale. La cerimonia del ravvedimento, come si diceva, non appartiene alle specialità della casa.
Si è visto anche a proposito della cantonata presa da D’Avanzo sull’assassinio di Mauro Rostagno, l’ex leader di Lotta continua ucciso nelle vicinanze di Trapani il 26 settembre 1988. Dopo avere per tanti anni girato invano intorno alla pista mafiosa, nel ’96 il procuratore di quella città, Gianfranco Garofalo, firmò un ordine di cattura contro Chicca Roveri, compagna di Mauro, contro Francesco Cardella e contro una decina di ospiti di Saman, una vecchia masseria, al confine tra Trapani e Palermo, che Cardella aveva trasformato in una comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Rostagno, secondo la tesi di Carotalo, era stato assassinato, con la complicità di Chicca, dai suoi ex amici di Lotta continua per impedire che lui potesse fare clamorose rivelazioni al processo contro Adriano Sofri e i presunti assassini del commissario Calabresi. Era una balla, come è stato dimostrato l’anno scorso, che costò a Roveri e agli altri sventurati un mese e mezzo di galera. Un’infamia smontata pezzo dopo pezzo da altri due autorevolissimi magistrati antimafia, Antonio Ingroia e Gaetano Paci, che dopo una decisiva perizia balistica hanno individuato e arrestato il vero mandante, Vincenzo Virga, e il verokiller, Vito Mazzara. Ma la «pista Garofalo» quella che gettava fango a tonnellate su Chicca Roveri e Ciccio Cardella, non era sfuggita al segugio D’Avanzo che nel 1997 a tamburo battente aveva confezionato un instant book dal titolo che non lasciava il minimo spazio al dubbio: Rostagno, un delitto tra amici. Finiva, come si può ben capire, per incoronare non solo il procuratore ma anche le scempiaggini contenute nella sua inchiesta. E, quando è arrivata la verità definitiva, che ha fatto D’Avanzo? Di scuse neanche a parlarne. Per le corazzate chic, soprattutto per la «nota lobby» (cosi Francesco Cossiga chiamava il gruppo di Carlo De Benedetti), l’ammissione pubblica di un errore non va mai di moda. Il fangarolo «de sinistra» torna, recupera, riadatta e poi rispiega. Si spezza ma non si piega.