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 2010  novembre 25 Giovedì calendario

LESSICO FAMIGLIARE - COLLOQUIO CON CARLO GINZBURG


Una vulgata recente vuole che la finzione spieghi la Storia meglio della storia stessa. E che tutte le opinioni e versioni si equivalgano. Non la pensa così Carlo Ginzburg, storico tra i massimi viventi, una delle menti migliori di questo Paese e che di rado si concede alle domande dei giornalisti. Giunto all’età di 71 anni, in occasione del conferimento del premio Balzan, in questa intervista a "L’espresso" Ginzburg critica il pensiero politicamente corretto, e soprattutto fa il bilancio della sua vita, intrecciandolo alle vicende di famiglia. "Vengo da una famiglia di intellettuali torinesi, ebrei, antifascisti. È l’ambiente in cui sono cresciuto. E anche se mio padre è morto quando avevo cinque anni, ne ho un ricordo molto vivo". Il padre Leone morì a Regina Coeli nel febbraio 1944, per le torture subite dai nazisti. La madre Natalia è stata tra le scrittrici più importanti del nostro Novecento. Il nonno Giuseppe Levi era uno scienziato famoso,costretto all’esilio dalle leggi razziali. Tra gli amici della famiglia Ginzburg-Levi: Cesare Pavese, Vittorio Foa; in passato c’erano stati legami con Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
È diventato il Carlo Ginzburg che conosciamo grazie all’educazione che ha avuto?
"L’ambiente in cui sono cresciuto mi ha condizionato in una maniera profonda e per tutta la vita. Però non era scritto da nessuna parte che sarei diventato uno storico e che avrei pubblicato certi libri. Nella crescita di una persona ci sono condizionamenti politici, culturali, emotivi, che fanno sì che si diventi ciò che si è. Ma c’è anche l’altra parte: il caso. Anzi i casi, al plurale: sono molto importanti".
Sta parlando della forza del destino?
"Non ho mai pensato che siamo prigionieri del destino. Penso invece di essere stato, come tutti, bombardato dai casi della vita. A quel punto intervengono le scelte. È come in quei film, in cui si racconta come la storia avrebbe potuto svolgersi in tutt’altro modo. Penso a "Sliding Doors": la vita cambia a seconda se uno abbia o non abbia preso il metrò".
Nel suo caso?
"Hanno influito persone, libri. Sono entrato alla Normale di Pisa nel 1957 e ho incontrato Arsenio Frugoni, Delio Cantimori, Arnaldo Momigliano, Augusto Campana, Sebastiano Timpanaro. Pensai: voglio studiare i processi di stregoneria. Mi interessavano gli accusati e non le accuse, volevo porre al centro delle mie ricerche le vittime della persecuzione. Andai a guardare la voce "stregoneria" nell’Enciclopedia Treccani, cominciai a studiare".
Suo nonno materno, padre di Natalia Ginzburg, era Giuseppe Levi, istologo insigne...
"Si alzava ogni mattina alle quattro, e andava in laboratorio. Mia madre racconta come fosse andato con una spedizione all’isola Spitzbergen e fosse entrato nella pancia di una balena, per studiare certi gangli del sistema nervoso. Un giorno, avrò avuto 10 anni, mi ha portato nel laboratorio e mi ha fatto guardare dentro il microscopio. Non ho visto niente, ma ho provato una forte emozione: una sensazione che provo ancora".
Dal microscopio alla microstoria...
"Il termine non l’ho inventato io. Ma l’idea di guardare la storia concentrandosi sul dettaglio ha per me anche una radice infantile. La decisione di fare lo storico è stata però abbastanza casuale. Certo ha a che fare con l’ambiente privilegiato in cui sono cresciuto: un privilegio contraddittorio".
In che senso?
"Oltre al privilegio c’era la persecuzione. Un ricordo: siamo nascosti a Vallombrosa, con mia madre e la nonna materna. È il 1944, io ho cinque anni. Mia nonna scrive sulla prima pagina di un mio libro, "Carlo Tanzi". Tanzi era il suo cognome da ragazza, e mi dice: "Tu ti chiami Carlo Tanzi". Sapevo che quello non era il mio nome, e che eravamo in pericolo. Ma mi sono reso conto di essere un privilegiato solo quando sono entrato alla Normale di Pisa: lì ho incontrato persone, che venivano da ambienti molto diversi dal mio".
Quando uscì "Lessico famigliare", il capolavoro di su madre, c’è chi scrisse: ecco la descrizione di un ambiente elitario che ha poco a che fare con la vita del popolo. Proviamo a rovesciare il discorso: la vita da studiosi della sua famiglia ha a che fare con l’etica, o meglio con una certa etica? E come ha influito su di lei?
" Non mi piace parlare di etica. Mi danno noia i predicatori: i professionali e dilettanti. Ma non c’è dubbio che l’impulso verso la ricerca mi sia venuto, inconsciamente, dal rapporto con mio padre, e i suoi saggi di storia e di critica letteraria. E l’impulso a scrivere è nato in me osservando mia madre. Se uno nasce in una casa di ciabattini, finisce col fare il ciabattino".
E la responsabilità?
"Certo. Professionale, prima di tutto, nei confronti della verità, senza virgolette. L’ho presa da mio nonno? Sì. Da mio padre? Certo, e anche da mia madre. Ma il senso di dovere verso la verità fa parte delle regole del gioco, che si introiettano così come si impara a giocare a tennis".
Suo padre, in qualche modo, diventa italiano per scelta...
"Non "in qualche modo". Diventa italiano per scelta: punto. Comincia a impegnarsi nella cospirazione antifascista solo dopo aver ottenuto la cittadinanza e si identifica, fortemente, con la tradizione del Risorgimento: è il titolo di un suo saggio, uscito postumo. È anche una questione generazionale. Vittorio Foa, suo coetaneo e amico, con il Risorgimento aveva un rapporto vivo: il modo con cui reagisce alle leggi razziali lo dimostra. Le considera come un tradimento dell’eredità risorgimentale. Immagino che mio padre pensasse allo stesso modo".
L’esempio di suo padre, una persona che viene da Odessa e si impegna, fino a sacrificare la propria vita, per un Paese che è suo non per nascita ma per scelta, ha una valenza universale?
"Agli ebrei è capitato spesso in passato di costruirsi una cittadinanza diversa da quella d’origine. Oggi è una condizione sempre più diffusa: per scelta o per i casi della vita. Però ogni caso è diverso: e anche la specificità della scelta di mio padre dev’essere mantenuta".
Sta dicendo che l’identità è una cosa che si sceglie e si costruisce?
"Non mi piace la parola identità. Meno che mai associata all’aggettivo "nazionale". Sto scrivendo qualcosa su questo tema. Bisogna riflettere sull’etimologia della parola identità, dal latino "idem". Ma né le popolazioni né gli individui rimangono identici a se stessi. Anche i loro confini non sono ovvi. Un individuo è il punto di intersezione di insiemi diversi. Io sono parte dell’insieme genere umano, della sua metà maschile, del sottoinsieme cittadini italiani, del sottoinsieme più piccolo dei professori di storia, e via specificando. Dell’insieme basato sulle mie impronte digitali faccio parte soltanto io. Dunque, in ogni individuo s’intrecciano tratti assolutamente specifici e tratti generici, condivisi con i gruppi più o meno vasti ai quali appartiene".
Lei si è occupato molto del rapporto tra storia e narrativa, tra finzione, falso e verità.
"Sono convinto che l’idea per cui la narrazione - romanzi, diari, opere letterarie - sarebbe più vera della verità storica sia semplicistica. Quanto all’idea che non sia possibile distinguere rigorosamente tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche, penso che sia sbagliata e pericolosa. Ma attenzione: lo stesso testo può essere usato per dire sia il vero sia il falso. Dipende dai contesti. Uno scritto originale del giornalista Maurice Joly è stato usato per fabbricare quell’ignobile libello che sono "I protocolli dei savi del Sion". Il finto che sostiene di essere la verità è falso".
In "Storia notturna" parla delle accuse di avvelenare i pozzi lanciate contro lebbrosi ed ebrei nel 1321, nel Sud della Francia. Oggi chi sono gli avvelenatori dei pozzi?
"Un paio di settimane fa sono stato a Parigi. Ho parlato davanti a una platea fortemente orientata contro Sarkozy. Mi è stato chiesto cosa pensavo delle recenti misure addottate dal governo contro i rom. Era una domanda retorica: la risposta era implicita. Ho detto che certamente in quelle misure c’erano elementi di continuità con i vecchi stereotipi: però il contesto è diverso. La pura riproposizione dell’analogia con il passato rischia di essere un freno alla conoscenza del nuovo. E ho citato una frase di Brecht registrata da Benjamin nel suo diario: "Non bisogna partire dalle buone vecchie cose, bisogna partire dalle cattive cose nuove"".
Per arrivare dove?
"Pensiamo all’integrazione degli immigrati. Il melting pot non ha funzionato negli Stati Uniti e non funziona in Europa. L’intreccio tra la cultura del Paese e le culture di chi ci arriva è una ricchezza potenziale: ma anche la tolleranza deve avere dei limiti. Qui si entra sul terreno della casistica: io direi, mutilazioni sessuali mai, ma il velo è un’altra cosa. Per me la scoperta della ricchezza della casistica, cristiana ed ebraica, è avvenuta contro le tradizioni della mia famiglia: nella mia educazione contava solo la saldezza dei principi morali. La nozione di male minore che Machiavelli, come ho scoperto, aveva trovato nella casistica medioevale, è stata usata spesso a fini ripugnanti. Ma è un’arma a doppio taglio, che può essere usata per ammazzare un bambino, oppure per salvargli la vita".
Dove finisce il lato soggettivo della sua ricerca e dove inizia il percorso oggettivo?
"Nelle scienze umane si parte inevitabilmente da un punto di vista particolare, soggettivo, per cercare di arrivare a una verità che possa essere accettata (o confutata) anche da chi parta da punti di vista diversi".
È possibile quindi una memoria condivisa?
"Possibile, ma non auspicabile. Direi, citando lo storico polacco-francese Krzysztof Pomian, che l’ipertrofia della memoria è diventata un’arma contro la storia. Certo, la memoria si nutre della storia, e inversamente: ma si tratta di due ambiti distinti, confonderli è letale. Proporsi come obiettivo una memoria comune può portare a gesti ignobili come l’equiparazione dei repubblichini ai partigiani, propugnata dall’attuale ministro della Difesa".
Sandro Pertini ha raccontato che suo padre, a Regina Coeli, dopo essere stato torturato, disse: "Soprattutto non dovremo odiare i tedeschi". Come intende questa frase?
"Alla lettera. E qui torniamo alla casistica. C’è un saggio magnifico di Primo Levi sulla zona grigia, che fa parte del suo ultimo libro, "I sommersi e i salvati". La vera fonte d’ispirazione di Levi non è l’amatissimo Dante ma Manzoni (su cui anche mio padre lavorava poco prima di morire). Da Manzoni gli veniva la passione per la distinzione morale, la più sottile possibile. La zona grigia significa che non tutti sono colpevoli allo stesso modo e non tutti sono innocenti allo stesso modo. Bisogna distinguere, sempre. Gli stereotipi, nazionali o di altro genere, impediscono di vedere la realtà, che è sempre infinitamente complessa".