Stefano Livadiotti, L’espresso 25/11/2010, 25 novembre 2010
MAI DI DOMENICA
Tenere aperti i centri commerciali tutte le domeniche sarebbe un errore, per chi vende come per chi compra. E la formula degli iper ha fatto il suo tempo: resta buona, forse, per i Paesi emergenti, dove l’economia viaggia con un passo sconosciuto all’Occidente".
Il contrordine (affidato a un libro intervista, "Un’altra vita è possibile", B.C. Dalai, in uscita martedì 23 novembre) viene da un’autorità della materia come Turiddo Campaini, da 37 anni numero uno di Unicoop Firenze, il più grande gruppo italiano della distribuzione cooperativa, con un milione e 100 mila soci e 2,3 miliardi di giro d’affari in cento punti vendita.
Perché è contrario l’apertura domenicale?
"Vorrei fare una premessa".
Avanti.
"Ritengo che comportamenti socialmente responsabili possano garantire risultati economici migliori non solo all’azienda ma anche all’intera società".
Tradotto in pratica?
"Non abbassare mai le saracinesche sarebbe solo un modo maldestro di cercar di spingere i consumi in un momento di crisi. I nostri soci, che alla fine dell’anno si domandano quanto abbiamo fatto loro risparmiare sulla spesa, ci chiamerebbero a risponderne. Ma pure dal punto di vista imprenditoriale non funzionerebbe: se tutti i negozi aprissero la domenica ci sarebbe un aumento dei costi, a fronte di un incasso uguale, spalmato su un giorno in più. Queste stesse considerazioni ci hanno indotto alla retromarcia sugli ipermercati".
Ma non siete stati i pionieri di questa formula?
"È vero: ma solo perché avevamo capito che sarebbe arrivata inevitabilmente anche da noi e allora tanto valeva essere i primi. Comunque, ora non funziona più".
Perché: cosa è cambiato?
"Dal lato dell’azienda, per una serie di motivi, sono venuti meno tutti i vantaggi un tempo assicurati dalla formula ipermercato: la possibilità di acquisire aree suburbane a prezzi convenienti, l’abbordabilità dei costi di costruzione, il risparmio garantito da una forza lavoro più giovane. Il consumatore, poi, ha capito che l’iper lo spinge a spendere più del necessario, senza peraltro assicurargli la convenienza di un tempo, erosa dal costo di un viaggio verso zone sempre più fuori mano".
Qual è la formula vincente?
"Dal punto di vista del business, bisognerebbe puntare al superstore, 3-4 mila metri di alimentari, integrati da pochi beni di larghissimo consumo".
Ma gli iper hanno anche l’effetto di calmierare i prezzi...
"Non è detto. Fatto cento l’indice medio dei listini alimentari italiani, la Lombardia, dove c’è la massima concentrazione di grande distribuzione, sta a quota 98,5 e la Toscana a 94,6. La concorrenza più virtuosa è quella tra diverse tipologie di vendita".
Secondo Mediobanca la Esselunga, che non scende mai sotto i duemila metri quadrati, è la più efficiente: produce 16 mila euro al metro, contro i 7 mila della Coop...
"Quello è un dato generale del mondo cooperativo. Noi siamo a quota 14 mila, pur continuando a presidiare il territorio con strutture di più modeste dimensioni. Tra il 2001 e il 2009 la nostra inflazione interna è stata del 3,6 per cento, mentre quella nazionale è arrivata al 22,6".
E l’iper come punto di aggregazione?
"Se i bambini stanno al parco giochi, le mamme guardano le vetrine e i papà discettano di pallone al bar, allora parlerei di attrazione, più che di aggregazione".