Alberto Alfredo Tristano, Gioia 18/11/2010, 18 novembre 2010
«SONO UN LADRO, CIOE’ UN ARTISTA»
Pipino in breve è un po’ difficile da raccontare. Cominciamo da quella volta che svaligiò il Guggenheim? O dal colpo che fece in casa Falck, da cui se ne uscì con un Canaletto sotto il braccio? Partiamo dai 25 anni di carcere sui 67 di vita? O dall’evasione dalla svizzera Prison du BoisMermet? Ecco: potremmo iniziare da Venezia, principio e chiusura di ogni avventura. No, meglio dalle mani. Cominciamo dalle mani. Anzi, dal prurito alle dita. Il prurito di “Encio”, Fantomas della Giudecca.
Vincenzo Pipino, chi è l’uomo che ruba?
Il ladro è un pittore: l’intelletto ce l’ha nelle mani. Non chiedetevi perché si ruba, sarebbe come chiedersi perché si
dipinge. È quel prurito che ti attiva le mani, ti fa inseguire il tuo desiderio. Potevo scegliere un mestiere normale, ma come avrei tenuto a bada il mio prurito? Funziona un po’ come nel regno animale. Prendi il procione: fa come me, ma mica lo mettono in galera!
Animali a parte, perché si ruba? Per soldi, oppure...
Non è una questione di soldi, perché chi ruba per soldi muore povero. Io l’ho fatto per l’arte, la mia: prendere quel che altri prendono col denaro con la destrezza, solo con la destrezza. Mai avuto un’arma, nemmeno bianca, nemmeno per finta, nemmeno per caso. Sono un ladro, non un delinquente. Il furto è già un trauma, perché dobbiamo aggiungere la paura di una pistola puntata contro o di 12 ore di prigionia legati a una sedia? Quando andavo in una gioielleria, prendevo tutto ma mai gli oggetti in riparazione, perché va bene alleggerire vetrina e cassaforte, ma se gli tolgo anche il lavoro lo stendo
per sempre quell’uomo lì... Mi creda, quel che ho fatto, l’ho fatto solo per quel brivido. Avete mai stretto Picasso, Braque o Canaletto tra le mani? Io li ho tenuti in salotto, pur non essendo un miliardario. Poi ho sempre restituito tutto magari, ecco, con un piccolo contributo...
Lei è stato un ladro senza pentimenti, né rimpianti, né vergogna. Ha intitolato il libro delle sue imprese Rubare ai ricchi non è un peccato, quasi a dare una connotazione morale
alle sue gesta. Non le sembra un po’ troppo?
Dopo mezzo secolo di furti piccoli e grandi, credo di non aver fatto sostanzialmente danni: ho tolto a chi poteva anche permettersi di non accorgersene.
Esagerato...
Sa dov’era Alberto Falck mentre gli portavo via il Fonteghetto della farina di Canaletto, un Marieschi, e la “polenta”, cioè l’oro e i gioielli custoditi nella camera blindata? Beh, il dottor Falck se ne stava a non più di dieci metri di distanza da me, in camera da letto. E mica dormiva, scriveva!
Ma perché rubare quel Canaletto?
Falck ha una discendenza austriaca, e furono gli austriaci a distruggere quel ponte che si vede in primo piano nel “Fonteghetto”. Diciamo che ho vendicato Venezia.
Molto romantico. Poi parlò con Falck?
Certo. Per telefono. Gli dissi: «Io le restituisco il quadro a patto che lei lo regali a Venezia». E Falck: «Il dipinto è mio e ne faccio quel che voglio». «Veramente adesso è mio», gli risposi, «e potrei anche ridurlo a pezzetti». Ma Falck aveva capito tutto: «Sono certo che non lo farebbe mai». Lo feci ritrovare poche settimane dopo a Roma. Sa che la famiglia Falck ci ringraziò con una cassa a testa di vini pregiatissimi?
E invece al Guggenheim?
Beh, lì fu proprio una cosa da guasconi. Entrammo due volte e togliemmo tutto. Naturalmente restituimmo ogni cosa. Però, la Guggenheim che gran signora...
Cioè?
Regalò tutto a Venezia. Ecco come si dovrebbe fare. L’arte è di tutti.
Lei è l’incubo dei ricchi della città.
Però io e i miei compari eravamo educati. Non lasciavamo macerie anzi, dopo il colpo facevamo un “restauro ambientale”, stuccando e dipingendo le pareti per togliere i segni di effrazione. La tecnica, come la classe, non è acqua. D’altronde, noi della Laguna siamo i migliori nel “buco”. Parlo di noi veneziani, non della mala violenta del Brenta, quella di Felice Maniero, con cui non abbiamo niente a che vedere...
Qual è stato il suo “capolavoro”?
Forse il Palazzo Ducale. Nessuno l’ha mai violato, e io l’ho fatto da solo! Oppure il Museo Correr. Avremmo potuto prendere tutti i quadri di Giovanni Bellini. Una bella “stecca”, un bel bottino. Ma dal mio complice scoprii che la refurtiva era destinata ad Arkan, “la tigre dei Balcani”: quelle opere non sarebbero mai più tornate a Venezia, così chiamai io stesso la “giusta”, la polizia. Invece, se devo indicare la più grande occasione perduta, penso a quella gioielleria di Parigi. Io con la mia “batteria”: i sette uomini d’oro.
Quelli del film.
Proprio noi. Io, il mio compare di sempre Gino, Pòpe, Antoine de la Rose, Cippo le Tabarin, My Bob e Marsian. Un colpo perfetto. Pensi che per entrare nella gioielleria usammo come passaggio l’atelier di Pierre Cardin, che poi sarebbe il padovano Zenon: a quei tempi, il più famoso atelier di Francia! Ci bruciò una maledetta soffiata. Comunque bisogna saper essere freddi con i colpi perfetti, perché sono quelli che non ammettono rinuncia, che ti danno l’impressione di non avere rischi, e così vai avanti, troppo sicuro di te stesso, fino a trovare brutte sorprese.
Cioè la ”chèba”, la galera, o magari una “zìzola”, una pallottola.
Sì, sono i rischi che devi assumere. Comunque io non rinnego i miei oltre vent’anni passati dietro le sbarre. L’ho sempre vissuto come un impegno, mi chiamavano “il sindacalista delle carce-
ri”, ho studiato tutti i codici e scrivevo i provvedimenti per i benefici per i reclusi di mezza Italia. Il mio ricordo più bello è la battaglia che facemmo per l’indulto del 1990, una battaglia che
vincemmo. Il carcere è un vero inferno. Alle volte penso che ci morirò in carcere... E sa una cosa? Non mi dispiace affatto, in galera sono stato una persona migliore. Ai giovani vorrei dire che stiano lontani da questa vita, perché alla fine si ritroveranno tra le mani un affettuoso, intimo nulla.
Come andò quella volta dell’evasione?
In Svizzera, sì... Per onestà devo dire che la Svizzera è davvero un altro mondo. Non puoi usare soldi tuoi nemmeno per pagare un francobollo, devi lavorare. Lì ti insegnano un mestiere, regolarmente pagato: ti versano il 25% in contanti, e il resto su un conto cui potrai accedere a fine pena. Io per esempio facevo il “marangòn”, il falegname. Insomma, in dieci anni di carcere impari un mestiere e hai da parte anche un bel gruzzoletto per ricominciare. Civiltà vera, non la barbarie italiana, con 150 morti all’anno. Ma cosa vuole? Ho il dannato senso della sfida.. Ci provai diverse volte a fuggire, fui sempre incastrato. Fino alla volta buona. Il direttore del carcere nel suo
ufficio aveva un uccellino in gabbia, e mi disse: «Non ci provi neanche a scappare da qui, dovrebbe farsi crescere le ali come quelle del mio uccellino...». Non sapeva che sui “coppi”, sui tetti, volavo molto meglio di lui... Gli lasciai una lettera: «Spero che il suo uccellino trovi la mia forza».
Come nel più classico dei contrappassi, oggi fa il consulente per i ricchi che non vogliono essere derubati.
In Veneto i furti in casa sono diventati una vera piaga, per di più accompagnati da una violenza insopportabile. Chi ha roba di valore è terrorizzato. Naturalmente ogni caso fa storia a sé, ma se capita una vicenda di questo tipo consiglio di guardare in casa, tra le persone che la frequentano: familiari, amici dei figli, lavoratori (custodi a parte, che rarissimamente tradiscono).
Nel 90% dei casi al furto partecipa un infedele.
Dia allora qualche consiglio a chi legge.
Innanzitutto, diffidate dei vetri spacciati per ultra-sicuri: una mano allenata li apre con un niente. Quanto a quelli anti-sfondamento, beh svaligiammo una gioielleria tirandovi dentro un colpo di carabina. Per un ladro sono molto peggio
i vetri normali, quelli che con un colpo si fracassano, perché possono tagliare e poi fanno un gran baccano quando si spaccano. Se al ladro togli il silenzio e il tempo l’hai fregato. Una buona soluzione sono le telecamere, un ladro non arriva mai di colpo, c’è sempre un complice che lo precede e che studia il campo: se vedete una faccia nuova, cominciate a preoccuparvi e attuate delle contromisure. Diffidate degli allarmi, si mettono fuori uso facilmente.
E le porte blindate?
Vanno bene, ma attenzione: più mandate non vuol dire più sicurezza. Date sempre mandate dispari con la chiave lasciata nella serratura: 1, 3 o 5. Con quelle pari è facile entrare da fuori. Se siete in albergo, fate dormire la donna vicino alla finestra: se viene svegliata di soprassalto da un ladro, reagisce per istinto come una tigre. Quelli che rus- sano sono una brutta bestia, perché si svegliano di colpo e scattano subito. Il primo sonno è quello migliore per agire per chi vuole derubarvi. Tra le 4 e le 5 del mattino è pericoloso, le persone si svegliano facilmente.
Dovrebbero darle una cattedra all’università...
Rubare è tutta una questione di psicologia. Quindi, anche per evitare il furto bisogna usare la psicologia. Sa qual è la contromisura più efficace che ho visto? Un cartello: «Si avvertono i signori ladri che questa casa è già stata visitata due volte. Onde evitare danni peggiori, trovate le chiavi sotto lo zerbino». Troppo desolante! Farebbe desistere pure un disperato...