Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 19/11/2010, 19 novembre 2010
MESSICO MITO PERDUTO
Furono i governi rivoluzionari del Messico ad avviare, nei primi decenni del ’900, gli scavi e i restauri di Teoti huacan, l ’ a ntica « Città degli Dei», nata nel I secolo a.C. e distrutta da un incendio nel VI secolo d.C., quando aveva raggiunto l’apice dello splendore, con 150 mila abitanti che vivevano in complessi residenziali ricoperti di intonaci raffinati e decorati con pitture policrome. Le ricerche interdisciplinari svolte tra il 1917 e il 1921 da Manuel Gamio, archeologo e pioniere della moderna antropologia, miravano a trovare, nel nuovo clima culturale creato dalla rivoluzione, le analogie tra indiani del passato e indiani del presente, sulle quali si sarebbe fondata l’identità nazionale del Messico moderno.
Non a caso, la mostra su Teotihuacan al Palazzo delle Esposizioni, organizzata per le celebrazioni del secondo centenario della nascita della nazione messicana, è affiancata da una rassegna fotografica che fa rivivere l’emozionante decennio della rivoluzione. Nelle 179 immagini in bianco e nero sfilano le figure-simbolo di Francisco Madero, Emiliano Zapata, Pascual Orozco e Pancho Villa, ma anche le folle di donne e uomini senza nome, che cavalcano armati e scalzi per le pianure bruciate dal sole, viaggiano cucinando i pasti sui tetti dei treni, muoiono sotto il fuoco delle mitragliatrici, oppure giustiziati.
A segnare la continuità di una grande cultura, che dai tempi di Teotihuacan arriva fino ai nostri giorni, c’è infine una terza mostra, allestita con cinque poderose installazioni di Carlos Amorales. Nato nel 1970 a Città del Messico e considerato uno dei grandi protagonisti internazionali dell’arte contemporanea, Amorales non fa mai espliciti riferimenti alle civiltà mesoamericane. Ma come non restare abbagliati dalle 751 stelle create con frammenti di plexiglas nero, così simili ai coltelli di ossidiana con i quali i sacerdoti di Teotihuacan infilzavano i cuori dei guerrieri sacrificati agli dei? E lo sciame di migliaia di farfalle nere, che a metà strada tra un incubo e un’impalpabile visione di leggerezza ha invaso pareti e soffitti di ben tre saloni al Palaexpo, non rimanda forse alle anime degli eroi della mitologia atzeca che si trasformano appunto in farfalle per abitare un paradiso di fiori?
E infine, lo Spider Galaxy, sgargiante costume a forma di uccello indossato da una ballerina per eseguire una performance tra le installazioni nei fine settimana, non ricorda forse l’antico serpente piumato venerato nella Città degli Dei, dio anch’esso: dell’acqua, della pioggia e del vento, garante della vita sulla terra?
Ma per comprendere meglio queste due ultime mostre, conviene cominciare la visita dalla prima, quella appunto su Teotihuacan, che raccoglie 450 oggetti straordinari, arrivati per la prima volta in Italia. Tra sculture monumentali in pietre pregiate, vasi policromi, maschere e figurine fittili, pitture murali che dopo due millenni conservano ancora i brillanti colori originali, si entra nel mondo sfolgorante ma ancora in gran parte misterioso della più antica civiltà del Messico. Furono gli Aztechi a scoprirne le rovine, mille anni dopo la distruzione, sull’altopiano centrale del paese, e a darle il nome di Teotihuacan (letteralmente «il luogo dove gli uomini diventano dei»); e immaginarono che proprio lì gli dei si fossero riuniti per creare il Quinto Sole, cioè l’astro che illumina il mondo attuale. Gli studiosi hanno individuato i templi del Sole e della Luna e quello di Quetzalcoatl, il serpente piumato, nelle cui cavità sono conservati centinaia di scheletri di uomini e donne che furono immolati agli dei. Non si sa chi fossero i governanti, né perché a un certo punto la città venne distrutta e abbandonata. Sappiamo che i suoi abitanti seguivano un calendario solare di 365 giorni, non facevano uso di metalli ma producevano armi e coltelli di ossidiana; che i suoi mercanti, in un mondo privo di animali da soma, si spingevano a piedi fino in Guatemala per scambiare conchiglie, pietre verdi e piume di quetzal. Sappiamo che amavano la musica, creata con strumenti a fiato in terracotta e conchiglie. Che non conoscevano l’uso del tornio e modellavano a mano, o per mezzo di stampi, le giare per uso domestico e i sontuosi incensieri dove si produceva il fumo aromatico che andava a nutrire gli dei. E che giocavano a palla. Nelle pitture murali si osservano varie modalità di gioco, in una la palla viene calciata, in un’altra colpita dai giocatori con mazze, come nel moderno baseball.
Lauretta Colonnelli