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 2010  novembre 19 Venerdì calendario

L’EREDITA’ FASCISTA NELL’ITALIA DI OGGI

Nella storia istituzionale italiana vi è un paradosso su cui pochi studiosi sinora avevano puntato il dito. Il fascismo fu definito un «male assoluto» e la Repubblica sorta dalla guerra è nel linguaggio corrente «antifascista». Ma lo Stato creato dalla Costituzione del 1948 conservò per molto tempo (e in parte conserva tuttora) una massa considerevole di enti, leggi e pratiche amministrative che risalgono al Ventennio.
Non basta. Il fascismo conquistò il potere con la violenza, ma conservò, insieme allo Statuto Albertino, istituzioni e leggi del periodo precedente. Per meglio marcare la differenza fra l’era mussoliniana e le due fasi storiche in cui è inserita vorremmo poter buttare via tutto ciò che appartiene al fascismo e dare implicitamente ragione a Mussolini quando sosteneva che il suo regime era totalitario. Ma non appena deponiamo gli occhiali dell’ideologia e guardiamo alla storia d’Italia con maggiore distacco, ci accorgiamo che accanto a molte rotture vi è anche una straordinaria dose di continuità. Questi sono alcuni degli argomenti trattati da Sabino Cassese in un libro recente pubblicato dalle edizioni del Mulino e intitolato per l’appunto Lo Stato fascista.
Per occuparsi di queste materie Cassese ha tutti gli strumenti di cui è utile disporre. Insegna Diritto amministrativo alla Scuola Normale Superiore. È stato ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi dal 1993 al 1994. È giudice della Corte costituzionale dal 2005. Ha visto lo Stato dalla cattedra dello studioso, dalla poltrona ministeriale dell’amministratore, dallo scranno del giudice, ed è perfettamente in grado di cogliere nella trama dello Stato fascista e di quello repubblicano i fili che non stati recisi. Riassunto un po’ schematicamente, questo libro, in ultima analisi, è una risposta alle domande che gli storici pongono a se stessi da molti anni.
Che cosa è il fascismo? Un regime totalitario? Una «democrazia» autoritaria di massa? Un interessante esperimento corporativo? Oppure una colossale sequenza di bugie e affermazioni retoriche in cui nulla di ciò che veniva detto corrispondeva alla realtà?
Conviene dire subito che non fu e non poté essere uno Stato totalitario. In una conversazione del 1943 con un vecchio amico, Ottavio Dinale, Mussolini si descrisse come l’affaticato arbitro di continui scontri e bisticci fra poteri antagonistici: «Governo, Partito, Monarchia, Vaticano, Esercito, Milizia, prefetti, federali, ministri, ras delle Confederazioni e dei grossissimi interessi monopolistici». Cercò di istituzionalizzare i conflitti piazzando alcuni dei contendenti al vertice dello Stato (il presidente della Confindustria faceva parte del Gran Consiglio) e creando la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Esercitò spesso il potere legislativo che si era attribuito grazie alle riforme istituzionali di Alfredo Rocco.
Ma le leggi s’impantanavano nelle sabbie mobili delle resistenze burocratiche o settoriali, e il risultato fu molto spesso una specie di pasticciato «centralismo democratico» in cui si discuteva e si litigava fino a quando Mussolini interveniva pronunciando l’ultima parola. Ma accadeva poi che l’ultima parola diventasse, nella realtà di ogni giorno, lettera morta.
Per creare lo Stato totalitario Mussolini avrebbe dovuto anzitutto eliminare la monarchia e trattare la Chiesa nel modo in cui veniva trattata in quegli anni dal regime di Hitler. Minacciò di farlo ogni qualvolta aveva una delle sue abituali esplosioni di collera. Ma finì sempre per rimandare il redde rationem a un altro giorno.
Il corporativismo, a giudicare dal libro di Cassese, fu molto più di una architettura effimera, costruita per celebrare i fasti del regime. La casa non ebbe mai un tetto, ma gli abitanti del condominio — corporazioni, sindacati, ordini professionali, enti privilegiati — furono tutto sommato soddisfatti dello status ottenuto dal fascismo e se ne servirono per promuovere i loro interessi all’interno del regime. In un Paese dove le virtù della libera concorrenza vengono spesso decantate e poco praticate, il corporativismo fascista divenne, secondo la definizione di Cassese, «un manuale di pratiche anti-concorrenziali». Non sorprende, a questo punto, che molto di ciò che fu creato in quegli anni sia tenacemente sopravvissuto nell’Italia della Prima Repubblica. L’autore osserva che «l’ordine corporativo scomparirà nel secondo dopoguerra, ma la rappresentanza di interessi rimane nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, così come gli enti che furono chiamati di privilegio, le pianificazioni di settore, le partecipazioni statali rimarranno e si rafforzeranno nel quarantennio che va dal 1948 alla metà degli anni Novanta, periodo nel quale si registra, invece, una svolta (privatizzazioni, modificazione delle norme sulla finanza privata, soppressione del sistema delle partecipazioni statali)».
Aggiungo che molto di tutto questo rimane in quella che, a dispetto delle delusioni, ci ostiniamo a chiamare Seconda Repubblica. Esiste ancora una invisibile Camera delle corporazioni di cui fanno parte il presidente di Confindustria, i segretari generali dei sindacati «maggiormente rappresentativi», il governatore della Banca d’Italia (che pronuncia ogni anno una sorta di «discorso della Corona»), il presidente dell’Abi (Associazione bancaria italiana) e quelli degli ordini professionali: persone e istituzioni che hanno una visibilità nazionale straordinariamente superiore a quella dei loro colleghi negli altri membri dell’Unione Europea. Tutti impeccabilmente antifascisti, ma investiti di un ruolo che risale al Ventennio.
Sergio Romano