Nicola Lombardozzi, il venerdì 19/11/2010, 19 novembre 2010
MOSCA, NEGLI UFFICI DI FANTOZSKIJ
Mettiamo un ufficio pubblico a caso. Uno di quelli con lunghe code cominciate all’alba, moduli e prestampati sparsi su ogni mensola, commessi in divisa che non danno mai una risposta comprensibile, caccia disperata all’ultimo minuto a una penna che scriva. Facciamo conto che sia il Gibdd, che una volta si chiamava Gai e che in Italia sarebbe più o meno l’ufficio della
Motorizzazione civile. Palazzo grigio in eterna attesa di restauri, all’estremo nord di Mosca davanti alle ciminiere e agli altiforni di via Vagonoremontnaja. Mezz’ora di macchina dal centro se non beccate il traffico. Quaranta minuti a piedi sullo sterrato se invece arrivate dalla più vicina stazione della metropolitana. Ci dovete venire per la revisione della vostra auto, tutte le volte che ne vendete o acquistate una nuova, per ognuna delle infinite formalità sui cambi di residenza.
La commedia, o forse la tragedia, della burocrazia alla russa qui va in scena tutte le mattine. Il copione è lo stesso che esaltò la vena satirica di Gogol, ingolosì i dirigenti sovietici così avidi di carte, timbri e permessi e che ora è la croce del presidente Medvedev, uno che usa Twitter, scrive su Facebook e a ogni occasione promette di volere «una Russia più moderna». L’ultimo tentativo verso l’ambizioso obiettivo è l’ennesimo decalogo dell’impiegato pubblico perfetto, con tanto di regole e di consigli per servire meglio il cittadino, diffuso nei giorni scorsi in tutta la Russia. In via Vagonoremontnaja, evidentemente, deve ancora arrivare. La prima impressione è che tutto sappia di casa. Non di casa propria, ma di casa di qualcun altro. Insomma, ti senti un ospite arrivato senza avvisare, prima che qualcuno abbia potuto mettere in ordine. Come in tutti gli uffici pubblici russi, il freddo arredamento sovietico è integrato con oggetti portati spontaneamente dagli impiegati. Tazzine sbeccate, con disegni delicati, saccheggiate dalla credenza della
nonna, barattoli di conserva usati come vasi di fiori, statuette di ceramica con preferenza per le scene di caccia. E poi l’odore, come se qualcuno stesse cucinando qualcosa di molto speziato. Probabilmente è proprio così perché, attraverso i piccoli vetri della lunga fila di sportelli numerati, si scorgono almeno un paio di fornellini elettrici.
Come quando si piomba a casa d’altri, il disagio cresce osservando i rapporti tra gli ospitanti. Pur essendo quasi tutti membri della polizia stradale, non hanno divise e gradi sulle spalle, ma le differenze tra di loro sono palesi. Lo capisci dagli occhi. Il subordinato è imbronciato, tiene lo sguardo basso. Metodi bruschi e una certa ottusità professionale sono di rigore: «Questo non va bene». Scusi, ma perché? «C’è scritto Roma, qui si dice Rim». Capisco, ma l’ha scritto un notaio romano, a Roma si dice Roma. «Sarà, ma non va bene. Provveda e si rimetta in fila. Avanti un altro, prego». E mentre il signore che ti seguiva sogghigna superandoti e trascinandosi
dietro un enorme targa da autocarro, ti perdi in un corridoio pieno di porte chiuse alla ricerca di un dirigente.
Bussare non serve a niente. Schiudere leggermente una porta e provare ad affacciarsi dentro ti fa arrivare qualche urlaccio, ma dopo qualche tentativo ti ricevono. I superiori hanno un aspetto
molto diverso dagli impiegati. Aria rilassata, camicia fresca di bucato, segretaria rannicchiata a un tavolinetto per macchina da scrivere, una ciotolina di semi di girasole e tanta voglia di chiacchierare. Scherzi sui notai, banalità varie sull’Italia e un ripetuto, ossessivo, controllo del passaporto. «Non so se si può fare, aspetti fuori». Lunga attesa, poi la chiamata. Un’altra occhiata al passaporto e un altro invito ad aspettare in corridoio vicino al distributore automatico di bevande calde. Al terzo incontro e al terzo invito ad andare a prenderti un caffè capisci che la leggenda della corruzione spicciola ha un suo fondamento. Nei tanti meandri della burocrazia russa, dare un piccolo incentivo all’impiegato di turno è quasi un rito augurale,
più che un’imposizione. A volte basta l’equivalente di pochi euro. Negli uffici distrettuali del Dez, equivalenti della nostra anagrafe, si racconta che basti una scatola di cioccolatini per evitare intoppi allo sportello, una trentina di euro per evitare lunghe code, una cifra più alta per evitare fastidiose ispezioni, molto di più per coprire qualche irregolarità. Un tariffario non scritto che funziona da anni e che varia con il potere d’acquisto del rublo e con gli stipendi, sempre magri, dei dipendenti pubblici. Alla fine, nel nostro caso, vince la simpatia per lo straniero che non conosce usi e costumi locali. La pratica si
sblocca con una sgridata pubblica all’impiegato che aveva posto la questione. Quello, mortificato, mette un timbro e rimanda a
un altro sportello.
Un anziano moscovita che segue la scena commenta bonario: «Non funzionano molto bene, ma nei nostri uffici alla fine si riesce sempre a risolvere tutto». Non ditelo a Medvedev che sa bene come il mostro burocratico sia quasi una piaga sociale con una lentezza e una vaghezza che esaspera i cittadini, scoraggia gli investitori stranieri, frena perfino i turisti che passano mattinate simili nei vari consolati di Russia in attesa dei visti. Le ragioni sono antiche e sono oggetti di saggi di politologi ed
economisti dai tempi degli zar. Uno smisurato esercito di impiegati, assolutamente sovradimensionato rispetto alle esigenze reali e difficile da disciplinare e organizzare, complica ancora più le cose. Tagliare e razionalizzare gli organici in questi tempi di crisi creerebbe un tasso di disoccupazione impossibile da gestire. Alla speciale commissione voluta dal Cremlino non resta che emanare regole di comportamento appellandosi al senso del dovere e anche a elementari norme di
buona educazione. «Non utilizzate il vostro lavoro a fini personali» viene consigliato insieme a «Non indossare abiti sgualciti» o a «Non raccontare a tutti dei vostri malanni o problemi familiari». Un tentativo senza molte speranze di offrire all’esterno almeno un’immagine di professionalità ed efficienza.
Più probabile che abbiano maggior successo altri piccoli provvedimenti tecnici. Come l’aumento dei controlli anti
corruzione o l’introduzione, dettata dal buon senso, dello sportello unico. Un’idea, quest’ultima, che ha fatto amare l’ex supersindaco di Mosca Jurij Luzhkov, quando dispose di accumulare tutte le pratiche in un solo pacchetto. Se devi vendere una casa, ad esempio, richiedi tutta la montagna di documenti necessari a un solo impiegato. Le code diventano perfino più lunghe ma almeno si evita quel peregrinare da ufficio a ufficio che riempiva le scale dei palazzi pubblici di disperati con fogli e buste alla ricerca della stanza giusta.
E poi c’è sempre l’arma segreta. Si può protestare. Basta scrivere direttamente al presidente Medvedev, Cremlino, Mosca. Spiegare i problemi e gli eventuali soprusi subiti e attendere
una risposta che, incredibilmente arriva su carta intestata e, qualche volta, perfino con la soluzione.
Ma torniamo in via Vagonoremontnaja, allo sportello finale. La pratica è sul banco di una ragazza bionda che la ignora e si concentra su un libro dalla copertina anonima. Riaffiorano le reminiscenze scolastiche delle Anime morte: «C’erano alcuni che stavano a leggere uno stupido romanzo infilato tra i grandi fogli della pratica in esame, come se stessero occupandosi di quella; ma nello stesso tempo sussultavano ogni volta che appariva un capoufficio». Il tempo passa, capiufficio in giro non ce n’è, arriva l’ora di chiusura. «Torni domani, buonasera».