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 2010  novembre 18 Giovedì calendario

E l’Unità divise gli scrittori - P rima e dopo. Prima, «una let­teratura risorgimentale, tut­ta tesa all’obiettivo dell’Unità: pensiamo ai grandi, Foscolo, Man­zoni; pensiamo a Ippolito Nievo»

E l’Unità divise gli scrittori - P rima e dopo. Prima, «una let­teratura risorgimentale, tut­ta tesa all’obiettivo dell’Unità: pensiamo ai grandi, Foscolo, Man­zoni; pensiamo a Ippolito Nievo». Dopo, «un’inversione di rotta: fatta l’Italia, ne emergevano i difetti, in­dividuati dagli stessi politici. La na­zione era unita politicamente, non antropologicamente; bisognava co­struirla, e gli scrittori si dedicarono a questo». L’Unità è uno spartiac­que anche per la storia della lette­ratura italiana, illustra Giuseppe Lu­po, scrittore, saggista e docente di Letteratura contemporanea alla Cattolica di Brescia. Partiamo dal prima, dalla lettera­tura che fu un tutt’uno con il pro­cesso risorgimentale. «Si tratta del cosiddetto ’canone ri­sorgimentale’, ben ricostruito, per esempio, da Giuseppe Langella nel suo Amor di patria. I pre-unitari so­no stati scrittori che hanno soprat­tutto creduto in un’idea, come Mas­simo D’Azeglio. E lo stesso Alessan­dro Manzoni: non intervenne mai attivamente in questioni pratiche, però tutta la sua opera è fonda­mentalmente un’opera risorgimen­tale. Lo mostra il lavoro che ha com­piuto sulla lingua: anni e anni spe­si per dare al suo romanzo una par­lata nazionale, perché aveva capito che, prima ancora che ai confini geografici, una nazione è legata al­la lingua che parla, alla sua identità culturale. Gli sono occorsi vent’an­ni per costruire I promessi sposi in u­na lingua nazionale, che fosse di tut­ti. Far parlare un filatore di seta e u­na contadinotta lombarda nel tosca­no è stata un’impa­gabile operazione nazionale e popola­re ». E i critici post-uni­tari, invece? «Si erano resi conto che, nonostante gli sforzi, sul piano del­l’identità l’Italia continuava ad esse­re divisa. Le prime avvisaglie di crisi fu­rono interpretate soprattutto da auto­ri meridionali: in­nanzitutto, natural­mente, Giovanni Verga; poi quelli che ne sono stati in un certo senso ’figli’: Federico De Rober­to, Luigi Pirandello, a seguire tutto il No­vecento. La lettera­tura meridionale – ’meridionale’ non soltanto perché fat­ta da autori meri­dionali, ma anche perché fatta da ragioni culturali le­gate al Mezzogiorno – ha elaborato le varie forme della crisi, arrivando a formulare tre principi: la non-sto­ria, l’anti-storia e la contro­storia ». Come si caratterizzano? «Per la letteratura meridionale del­la non-storia vale l’idea che il Mez­zogiorno non ha mai avuto una sto­ria, ma è sempre rimasto immuta­bile; neppure il processo risorgi­mentale, con il passaggio dai Bor­bone ai Savoia, ha in realtà messo in moto un divenire storico. Sebbene già novecentesco, l’esempio più em­blematico di questa posizione è il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi: è questo esponente non meri­dionale della letteratura del Meri­dione a formulare esplicitamente il concetto di un mondo immobile e sotterraneo: di non-storia, appunto. Ma forse il massimo romanzo della non-storia è Il Gattopardo di Giu­seppe Tomasi di Lampedusa, del 1957. Il principe di Salina rifiuta re­cisamente di entrare a far parte del Senato del nuovo regno: non ricono­sce l’arrivo della sto­ria ». E l’anti-storia? «È quella che nasce con I Viceré di De Roberto (1894), che passa attraverso I vecchi e i giovani di Pirandello (1913) e che arriva fino al racconto di Leonar­do Sciascia Il qua­rantotto (1958). In queste opere la sto­ria arriva, sì, e porta modifiche; ma la ri­sposta delle classi dominanti è di asse­condarle, per conti­nuare a governare, nel vecchio come nel nuovo mondo. Borbonici sotto i Borboni, diventano sabaudi con i Sa­voia: ma fonda­mentalmente non cambiano nulla. Comandavano pri­ma e comandavano dopo; si legge ne I Viceré : «Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Vi­ceré; adesso che abbiamo il Parla­mento, lo zio è deputato». Oppure, ne Il quarantotto, il principe conti­nua a cambiare i ritratti dei sovrani nel suo palazzo: toglie i Borbone per mettere Carlo Alberto, poi toglie Carlo Alberto e rimette i Borbone...». Infine, la contro-storia... «È un filone molto più recente, le­gato soprattutto al primo centena­rio dell’Unità. Si tratta sostanzial­mente di un’interpretazione del processo risorgimentale completa­mente ribaltata, nella quale la guer­ra di liberazione e d’indipendenza nazionale diventa una guerra di conquista. La conquista del Sud è infatti il titolo del saggio del 1974 di Carlo Aianello, cui possiamo affian­care, man mano che ci avviciniamo al presente, Luciano Bianciardi, Al­do De Iaco, Raffaele Nigro, Giancar­lo De Cataldo. Ad accomunarli, per esempio, è una lettura del brigan­taggio come ribellione alla storia che arriva e che vuole imporre le sue re­gole. Ma si tratta per l’appunto di sviluppi molto più tardi; il primo fi­lone, quello originario, è stato quel­lo dell’anti-storia». Un filone che era in rapporto an­che con l’emergere della questione meridionale, nei primi decenni do­po l’Unità? «Certo: il dibattito letterario aveva assorbito tutta la grande questione meridionale, della quale si occupava­no gli storici, gli e­conomisti, i filosofi e i giuristi: Giustino Fortunato, l’inchie­sta Jacini, il viaggio di Zanardelli in Ba­silicata. La lettera­tura meridionale sposò pienamente la questione meri­dionale, facendone il suo argomento principale a partire da Verga – e in fon­do tutta la narrati­va meridionale scaturisce dal gran­de tronco verghia­no. La risposta de­gli scrittori al pro­blema è stata però, se non ambigua, al­meno a diverse fac­ce. A dominare è stato il disfattismo, il completo annul­lamento di ogni speranza, che ha ge­nerato una letteratura piagnucolosa, problematica: quella di Corrado Al­varo e di Ignazio Silone, ma anche dello stesso Levi; una letteratura fo­n­intervista damentalmente di denuncia. La ri­sposta ai mali del Sud è stata, dal punto di vista sociologico, prima la ribellione – il brigantaggio –, poi l’e­migrazione – verso le Americhe, poi verso il Nord Europa, infine verso il Settentrione. Purtroppo spesso è mancata, nella narrativa meridio­nale, la fase del progetto, della pro­posta ». E, al di là del Mezzogiorno, c’è sta­ta anche una letteratura meno pro­blematica e più celebrativa del Ri­sorgimento? «Sì, l’avvenimento centrale dell’U­nità è stato ampiamente celebrato, con tutta una sua retorica lettera­ria. Ma attenzione: già negli anni Sessanta dell’Ottocento, cioè nel­l’immediato post-Unità, proprio nel Nord Italia emerge la Scapi­gliatura, un fenomeno in cui già gli scrittori cominciavano a porre il problema del Risorgimento im­perfetto. Da una parte, quindi, Ed­mondo De Amicis, lo scrittore ri­sorgimentale, il cui libro Cuore – che è del 1886, venticinque anni dopo l’Unità – è il libro per eccel­lenza dell’Italia unita; dall’altra, I­ginio Ugo Tarchetti, che invece è lo scrittore del dubbio sul Risorgi­mento. Per De Amicis, la guerra è un avvenimento cruciale nel pro­cesso di formazio­ne dell’Italia; Tar­chetti, al contrario, è antimilitarista. Anche qui torna in mente Verga, che fa morire uno dei suoi Malavoglia nella battaglia di Lissa: ma di quella guerra il ragazzo non capiva nulla, il Veneto, il Trentino, l’Austria per un pe­scatore siciliano non avevano sen­so. In realtà il gran­de momento ag­gregante della na­zione italiana è ve­nuto con la Prima guerra mondiale: solo allora il popo­lo si è davvero ri­trovato, nel dolore, unito». E, accanto all’esaltazione di quan­to fatto, non c’era anche un’esalta­zione di quanto si sarebbe potuto ancora fare? «All’indomani dell’Unità e ancor più negli anni Ottanta c’è stato il tenta­tivo di esaltare l’Italia quale novella Roma, quale nazione che dovesse essere alla pari con le grandi poten­ze dell’Ottocento. È stato Giosuè Carducci lo scrittore che ha im­presso, nella sua dimensione di poe­ta civile, l’idea dell’Italia risorta, del mito di Roma. Ed è stato anche da questo mito che, alla fine, è nato il fascismo – senza che Carducci ne abbia colpa, naturalmente. Tutta­via, la storia della letteratura consi­dera molto più riuscita l’opera de­gli scrittori che hanno interpretato i segnali della crisi, che hanno com­preso come il Risorgimento, realiz­zato così com’è stato realizzato, ha posto dei problemi. Che gli scritto­ri hanno fatto bene a registrare: so­no stati il termometro di un’imper­fezione ».