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 2010  novembre 18 Giovedì calendario

L’EUROPA DARWINIANA NON SALVERÀ L’EURO

È difficile credere che l’Irlanda possa farcela da sola. Il suo debito pubblico sale senza soste e il suo sistema bancario è da troppo tempo tenuto in piedi solo grazie al respiratore alimentato dalla liquidità della Banca centrale europea. La missione congiunta Ue e Fmi che è stata inviata a Dublino dai ministri finanziari della zona euro appare così solo un primo passo per arrivare, dopo le elezioni politiche irlandesi del 25 novembre, a formalizzare un pacchetto di sostegno finanziario esterno da parte del resto d’Europa.
Ma a questo punto ci si può chiedere: sarà o no sufficiente a mettere al sicuro l’economia irlandese? E poi, quali prospettive a medio termine si profilano per l’insieme della zona euro e per i paesi che ne fanno parte?
Le risposte a dir la verità sono ancora confuse. Anche se una diagnosi sembra oggi prevalere sui mali dell’euro e quindi sulle terapie da adottare da qui ai prossimi anni. A sostenere entrambe è la Germania, il paese uscito indiscutibilmente più forte dalla crisi e in grado nell’attuale fase di esercitare un ruolo di leadership in Europa.
L’idea chiave è nota da tempo: le crisi in corso sono imputabili alle sregolatezze delle politiche economiche messe in atto dai singoli paesi membri, in particolare in campo fiscale, e di conseguenza gli oneri di aggiustamento debbono essere riversati sui singoli paesi in difficoltà. Di qui l’austerità fiscale adottata con particolare intensità nei paesi più indebitati e a rischio, unitamente ai maggiori controlli e sanzioni - anch’essi in larga parte incentrati sulle politiche fiscali e di bilancio dei singoli paesi - promossi nella nuova governance economica europea.
La novità davvero importante, tuttavia, è venuta qualche settimana fa con la proposta della Germania, approvata dall’ultimo vertice europeo, di sostituire alla sua naturale scadenza (2013) il Fondo europeo per la stabilità finanziaria (EFSF), creato a maggio di quest’anno, con un meccanismo permanente di risoluzione delle crisi, che contempli esplicitamente e sia imperniato sulla possibilità di fallimenti, più o meno estesi, dei singoli paesi membri. Tutto ciò da codificare in una formale modifica dei Trattati.
È un vero e proprio rovesciamento nella concezione di funzionamento dell’unione monetaria. L’esistente Fondo di sostegno funziona in effetti come un meccanismo di stabilizzazione per aiutare i paesi più esposti a rimborsare i loro debiti, a fronte di piani di austerità che questi stessi paesi si impegnano ad attuare sotto l’occhio vigile anche del Fmi. La sua approvazione è stata una novità importante perché sancisce - considerata l’interdipendenza reale e finanziaria esistente - l’assunzione di una sorta di responsabilità collettiva da parte dell’Eurogruppo nel suo insieme dei debiti dei paesi in difficoltà. D’altra parte una robusta letteratura economica, teorica ed empirica, conferma che nessuna unione monetaria è in grado di funzionare senza un qualche meccanismo di condivisione degli squilibri.
Con l’introduzione della esplicita possibilità di default di un paese membro i paesi dell’Euro si accingono ad affermare una visione di funzionamento assai diversa dell’unione monetaria europea. La si immagina come semplice somma delle politiche autonome dei singoli attori che la compongono e priva di un qualsiasi vero meccanismo di redistribuzione finanziaria e/o reale degli oneri di aggiustamento di eventuali squilibri.
Il problema è che si tratta di una visione sbagliata. E non è purtroppo difficile prevedere che finirà per rendere la zona dell’euro ancora più fragile aumentando la possibilità di crisi finanziarie di uno o più paesi all’interno dell’area. I primi danni, in effetti, si sono già visti proprio nel caso irlandese, nonostante le tardive assicurazioni della scorsa settimana che il nuovo meccanismo comincerà a funzionare solo a partire dal 2013.
Diverrebbero a questo punto elevati i rischi che la Grecia e altri paesi della zona periferica possano non riuscire a sostenere le misure draconiane di aggiustamento a loro richieste e siano spinti verso una situazione di insolvenza e alla fine costretti a uscire dall’euro, per quanto drammatica resti questa scelta. Si potrebbe così arrivare a una moneta unica limitata ai soli paesi forti che vantano solidi fondamentali in comune.
Ci possono essere alternative a questa Europa darwiniana? Sì se l’area euro, ad esempio, anziché smantellarlo si prefiggesse di perfezionare e trasformare l’EFSF (Fondo di stabilizzazione) in un vero e proprio Fondo monetario europeo. E poi riuscisse a dotarsi di strumenti di politica economica e fiscale che consentano la crescita dell’area dell’euro nel suo insieme, tra cui una procedura ordinata ed efficace di gestione degli squilibri all’interno dell’area che portino a una maggiore cooperazione tra i paesi membri.
Per riassumere, l’area dell’euro si trova in questa fase di fronte a un fondamentale crocevia. La sua stabilità finanziaria si deve fondare certamente sulla stabilità dei prezzi e la disciplina di bilancio, ma ha altrettanto bisogno di un terzo pilastro che è quello dell’integrazione e della crescita economica. O l’area dell’euro trova i modi per gestire la sua integrazione e tornare a crescere o l’intero disegno di integrazione europea rischia il fallimento.