Francesca Caferri, la Repubblica 17/11/2010, 17 novembre 2010
YEMEN, L’ULTIMA FRONTIERA DEL TERRORE
L´ufficio del gruppo di spedizioni Ups su Hadda street, una delle principali strade di Sana´a, è chiuso. Due lucchetti bloccano la porta: i poliziotti di guardia non hanno idea di quando saranno rimossi. All´interno, un manifesto pubblicitario in inglese: «A Londra in un giorno. Dateci fiducia». La - scarsa, a dire il vero - fiducia che il mondo riponeva nello Yemen è svanita fra i banconi di questo ufficio un paio di settimane fa. È da qui, e dalla vicina FedEx, anch´essa ora chiusa, che sono partiti i pacchi che hanno messo in allarme gli aeroporti di Europa, Stati Uniti ed Asia: cartucce di inchiostro per stampante riempite di esplosivo e destinate ad obiettivi americani. L´episodio, l´ultimo di una serie, ha spinto gli Usa a modificare il loro approccio nei confronti dello Yemen e a considerare un intervento diretto sotto forma di esperti da affiancare agli yemeniti nella caccia agli uomini di Al Qaeda.
Una prospettiva, quest´ultima, che lancia pesanti ombre sul futuro dello Yemen, già stritolato da una pesante crisi economica e politica: «Non siamo responsabili di quello che sta succedendo, ma ne paghiamo il conto», dice Mohammed Ahmed Al Khamani, commerciante.
Difficile dargli torto. Le strade di Sana´a in questi giorni sono piene di soldati. Le camionette stazionano ad ogni angolo ma negli ultimi due anni non sono riuscite a impedire che la città fosse scossa da una serie di attacchi firmati Al Qaeda: il risultato è che oggi trasmettono più un senso di assedio che di sicurezza. Fuori dalla città, la situazione è anche peggiore. Ampie aree del Paese, a Nord e a Sud, sono fuori controllo: il governo sta fronteggiando - con i soldi della lotta al terrorismo, accusano opposizione e ong - due rivolte, quella degli sciiti Houti a Nord, e quella dei secessionisti a Sud. Da queste zone arrivano quotidianamente racconti di bombardamenti, agguati, vittime civili e profughi.
Il conto di cui parla Al Khamani probabilmente salirà ancora nelle prossime settimane. Ieri il Wall Street Journal metteva il timbro dell´ufficialità ad una voce che da giorni gira qui a Sana´a: gli Stati Uniti si preparano a creare una serie di basi militari in tutto il Paese. Da esse corpi di elite americani e locali daranno la caccia insieme agli uomini di Al Qaeda, che da qualche anno - sotto la sigla di AQAP, "Al Qaeda nella Penisola Arabica" - hanno trovato in questo territorio montagnoso e restio al controllo del governo centrale un rifugio sicuro. Dalle montagne dello Yemen, firmando azioni come il fallito attentato del Natale 2010 e i pacchi bomba di due settimane fa, AQAP si è imposta come una minaccia per il mondo intero: «La loro forza non sta nei numeri e neanche nel supporto popolare - spiega l´analista Abdelghani Al Eryani - ma negli errori finora commessi dagli yemeniti e dagli americani. Possono fare quello che fanno perché coperti dalle tribù: e le tribù li appoggiano perché detestano il governo e la sua politica». Come molti qui Al Eryani è convinto che un intervento del Pentagono, seppur limitato, sarebbe un errore: «Farebbe solo il gioco di AQAP», sostiene, spingendo dalla parte degli estremisti la maggior parte degli yemeniti, che già oggi vedono negli americani più un nemico che un alleato: «Non accetteremo mai la loro presenza sulla nostra terra», dice Mohammed Ali Salah, venditore di jambiye, il coltello ornamentale che ogni yemenita porta alla cintura. «Ognuno di noi è armato e pronto a combatterli: se metteranno piede qui per loro sarà peggio dell´Afghanistan», gli fa eco Fuad Mohammed Ali.
Nell´attesa degli eventi, lo Yemen sembra paralizzato. Le vie della città vecchia di Sana´a fino a qualche anno fa pullulavano di turisti: ora non c´è più uno straniero. «Il turismo è morto», dice Marco Livadiotti, che per 30 anni ha guidato i turisti fra le meraviglie dello Yemen. Alla fine del turismo, importante fonte di guadagno, si è aggiunto il blocco dei cargo, decretato da diversi governi occidentali. Un divieto che priva gli artigiani come Ali Al-Khawani dell´unica fonte di guadagno rimasta: le esportazioni. «Posso andare avanti due-tre mesi, poi dovrò chiudere» si lamenta fra i cesti del suo negozio. Ali teme che finirà nelle fila dei disoccupati - circa il 40% della popolazione - di questo Paese poverissimo, dove 8 milioni di persone - su 24 - non hanno regolare accesso al cibo. La stessa fine farebbe il fratello, che lavora con lui, e le due famiglie: in tutto una quindicina di persone.
«L´economia, non le azioni militari, sono la base per ogni futura stabilità in Yemen», sostiene Nabil Shaiban, del ministero della Cooperazione internazionale di Sana´a. Laurea negli Stati Uniti, master in Gran Bretagna, dal suo ordinatissimo ufficio Shaiban gestisce il flusso degli aiuti: «Le sfide sono enormi. Qui la maggior parte dei ragazzi non ha lavoro né prospettive: per gli estremisti è facile reclutarli», spiega. Dalle fila di questi giovani sono arrivati migliaia di mujaheddin che, seguendo il richiamo di Bin Laden hanno combattuto in Afghanistan e in Iraq. Ancora oggi gli yemeniti sono il gruppo più numeroso fra i prigionieri di Guantanamo. Ma l´Occidente ancora non trova il modo per chiudere i rubinetti della Jihad: «Le politiche seguite finora stanno portando gli yemeniti verso la radicalizzazione e la militanza invece di aiutarli», accusa il think tank inglese Chatham House.
Un tentativo di cambiare approccio è quello intrapreso da Europa e Paesi del Golfo poche settimane dopo il fallito attentato di Natale: una ventina di nazioni si sono riunite sotto le insegne di Friends Of Yemen, un gruppo di donatori - fra cui l´Italia - che propone una visione basata su sviluppo e riforme. Le cifre degli aiuti civili sono aumentate molto negli ultimi mesi - e con esse il rischio corruzione: il tasso è uno dei più alti al mondo - ma impallidiscono ancora di fronte a quelle di quelli militari, in particolare americani: 5 milioni di dollari nel 2006, 67 nel 2009, 155 nel 2010 e 250 nel 2011.
Finora questi soldi non sono bastati ad assicurare alla giustizia gli uomini che dallo Yemen muovono le fila della nuova Al Qaeda, e in particolare Anwar Al Awlaki, 39 anni, americano-yemenita, considerato la mente di AQAP e per questo ricercato - vivo o morto - da Washington e da Sana´a. L´unico - presunto - volto dell´estremismo che il governo è riuscito a mostrare al mondo è quello di Hisham Mohammed Assem, 19 anni, accusato di aver ucciso un tecnico francese il mese scorso. Assem ha prima confessato di aver agito in nome di AQAP poi ha ritrattato, sostenendo di essere stato torturato. Visto da vicino, nella gabbia bianca da dove segue il processo che lo vede imputato insieme ad Al Awlaki, Assem sembra più un ragazzino smarrito che un feroce terrorista: davvero l´organizzazione che spaventa il mondo ha il suo volto?
Gli analisti non ne sono convinti: «Saleh sta cercando di convincere l´Occidente che lotta contro l´estremismo e usa ogni modo per farlo - risponde Bernard Haykel dell´università di Princeton - la realtà è che potrebbe annientare AQAP in tempi brevi. Ma non vuole: perché Al Qaeda in Yemen significa per lui sostegno internazionale e soldi». Le ultime scelte degli americani confermerebbero questa ipotesi, sostenuta anche da oppositori e società civile, preoccupati che in nome della sicurezza l´Occidente e i Paesi del Golfo finiscano per dare carta bianca a Saleh, che governa con il pugno di ferro da 30 anni. Di tanta politica internazionale Ali Salah, il commerciante di coltelli, non capisce molto, ma di una cosa è certo: «Dal futuro noi yemeniti ci aspettiamo solo cose brutte».