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 2010  novembre 18 Giovedì calendario

LA MALATTIA IRLANDESE

La vicenda del dissesto finanziario irlandese è più rivelatrice di quella greca. Allora, quando l’Europa scoprì il baratro dei conti pubblici di Atene, vi furono esitazioni e ritardi ma alla fine quel che si doveva fare fu fatto e il governo ellenico ringraziò. Oggi, invece, assistiamo a un balletto paradossale nel quale il malato sembra fare di tutto per sottrarsi alla cura dei dottori dell’euro. Non intendo chiedere soccorso, dice il premier irlandese Cowen mentre le sue banche (nazionalizzate) se la vedono brutta. Non voglio sentir parlare di salvataggio, aggiunge. E di certo dovrà sudare sette camicie per poterlo finalmente riempire di quattrini, la missione Ue-Bce-Fmi che oggi arriva a Dublino per «trattare».
Attenzione, l’assurdità è soltanto apparente. Con una buona fetta del suo debito collocato nelle banche di vari Paesi europei e nella Banca Centrale, Cowen ha più forza negoziale di chi lo supplica di farsi aiutare. E può, almeno per un po’, giocare la carta della sovranità minacciata, con buona pace di chi (come il Portogallo) teme di essere il prossimo sulla lista dei mercati. Beninteso alla fine l’accordo ci sarà, e Cowen avrà creato le condizioni per ottenere l’intesa più conveniente. Tra l’altro con il probabile contributo della Gran Bretagna di Cameron, desiderosa di difendere i suoi forti legami economici con l’Irlanda e anche, sin qui, meno anti europeista di quanto si fosse temuto.
L’accordo ci sarà, ma avrà mostrato con i suoi contorcimenti fino a che punto sia dannoso per l’Europa e per il suo euro non disporre di una governance economico-finanziaria dotata di regole che mettano al primo posto l’interesse collettivo e non quello di Mr. Cowen. Avrà ricordato, questo accordo, che l’Europa è rimasta in mezzo al guado in quei Paesi (sedici) che hanno rinunciato alla fondamentale sovranità della moneta propria ma poi sono pronti a resuscitare una sovranità offesa e a creare danni agli altri perché nessuna forma di ulteriore integrazione lo vieta.
In questa Europa incompiuta è normale che l’effetto domino dei dissesti finanziari resti possibile. Troppo grande è la differenza tra la velocità dei mercati e della speculazione e quella dei sistemi di garanzia. Il Portogallo dovrà forse chiedere aiuto. Ma poi, ed è questo il punto decisivo per il futuro dell’euro e dell’Europa, esiste una linea rossa. Quella che segna il passaggio a economie molto più importanti e difficili da soccorrere, come la Spagna. E dopo la Spagna (ma noi confidiamo nel «non collasseremo» di Tremonti), come l’Italia.
Sono, questi, scenari per ora ipotetici, che tuttavia, se diventassero realtà, potrebbero segnare davvero la fine dell’euro come oggi lo conosciamo e per conseguenza dell’Europa com’è. Occorre, allora, guardare oltre la Grecia, oltre l’Irlanda, forse oltre il Portogallo, ma poi essere in grado di fermarsi e di combattere una Stalingrado europea. Chi debba guidare le forze dell’Unione calmando i mercati e trovando nel contempo la via per un ritorno a finanze pubbliche sostenibili in ogni Stato è chiaro a tutti: per risorse e per influenza non può che trattarsi della Germania. Ma il generale Merkel, invece di impugnare il vessillo della riscossa, sembra piuttosto impegnato a disorientare amici e nemici.
È giusto prevedere un meccanismo permanente di soccorso per quando l’attuale scadrà. È ragionevole prevedere un ritocco del Trattato di Lisbona che non riapra il tormento delle ratifiche. Ma lasciare nell’ambiguità la questione del «default pilotato»? E soprattutto, affermare a gran voce che dovrebbero pagarne il prezzo anche i privati? Su quest’ultimo punto si è resa necessaria una precisazione in margine al G20 di Seul, caso mai qualcuno dubitasse dell’errore iniziale: per privati si intende coloro che acquisteranno bond dal 2013 in avanti, non chi già li detiene.
Il punto è che non si tratta di errori, o soltanto di errori. Angela Merkel è al bivio tra due rotte molto diverse. La prima tiene conto dei malumori della sua opinione pubblica «imbrogliata dai greci» e poi ancora costretta a pagare per altri, sempre meno europeista, sempre più propensa a fare da sé ora che l’Europa non è più, come diceva Kohl, una questione di pace o di guerra. La seconda esige che agli elettori vengano ricordati i vantaggi avuti dalla Germania, quelli che ancora entrano nelle sue casse, e il significato di un europeismo solidale che se è cambiato non ha per questo meno ragioni di esistere. La prima è la rotta del leader politico che vuole essere rieletto nel 2013. La seconda è la rotta dello statista. Non sappiamo ancora quale delle due Angela Merkel sceglierà. Ma anche senza farsi vane illusioni, anche senza immaginare una Europa che smetta di essere intergovernativa, tra molto poco diventerà urgente per tutti scoprire dove punta la bussola del generale.
Franco Venturini