Alberto Orioli, Il Sole 24 Ore 18/11/2010, 18 novembre 2010
I SETTE PREGIUDIZI SUL LAVORO CHE C’È
Se mai ci fosse stato bisogno di una prova sul campo delle teorie da Nobel sulla difficoltà di far incontrare ogni lavoro con il suo lavoratore eccola: ci sono 110mila posti che in Italia non trovano altrettanti occupanti disponibili (o capaci) a ricoprirli. O se li trovano, ciò accade con grande dispendio di tempo e risorse.
Diamond, Mortensen e Pissarides, gli ultimi vincitori del Nobel per l’Economia, forse – si parva licet componere magnis – la spiegherebbero con l’equilibrio dinamico della curva di Beveridge, vale a dire la rappresentazione cartesiana che, in ogni epoca e in ogni realtà, dimostra la difficoltà di far combaciare posti di lavoro disponibili con l’entità dei disoccupati. Un Nobel a chi ha dimostrato, in sostanza, che l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è sempre imperfetto.
Perché questo esercizio è cosa degli uomini e non della matematica. E lo si capisce se dagli assi cartesiani si passa alle persone e agli stati d’animo. Insomma, dietro ai 110mila tecnici meccanici, elettromeccanici, chimici, biologi o biotecnologi di cui le imprese avrebbero bisogno e non trovano c’è l’idea stessa che il paese ha avuto finora del lavoro. La sua idea di cultura del lavoro. Con valori e disvalori. E troppi pregiudizi. Eccoli.
Sono lavori di serie B
o sottoccupazioni
Non ha senso allevare generazioni con il mito, ad esempio, della laurea in Scienza delle comunicazioni quando si sa che il mercato non è in grado di creare sbocchi occupazionali acconci. Vale più un diploma tecnico che si sposi con le richieste dell’eccellenza industriale del paese. In termini macro, è solo garantendo la base occupazionale a questi settori che si consente al paese di irrobustire il tessuto manifatturiero senza il quale anche il mondo dei servizi perde l’ancoraggio strutturale per svilupparsi.
Sono sottopagati
Un saldatore iper-specializzato che magari deve avere qualche rudimento di lingua straniera perché lavora nei cantieri sparsi per il mondo può guadagnare anche 2mila euro. Non sono pochi gli avvocati che, a inizio carriera, accettano di lavorare per poco più di 5-600 euro. E proprio l’indagine che pubblichiamo a pagina 35 dimostra che i nuovi entranti sono assai lontani dagli standard retributivi di chi li ha preceduti.
Non sono posti socialmente
attraenti
È un problema di cultura: spesso le aspettative lavorative di un giovane le fanno ancora famiglie con il mito del bancario e del posto pubblico. O, peggio, della velina, intesa come scorciatoia suprema dell’affermazione sociale. Invece ieri sono arrivate provvidenziali le parole di Ennio Morricone: «Scegliete sempre la professione che vi interessa; senza amore e passione non c’è esito felice. Ma bisogna imparare anche a soffrire».
L’Italia deve ancora superare una specie di complesso post bellico, ma lo sta facendo. Non funziona l’ascensore sociale: sale poco, ma soprattutto se scende non riesce a convincere i più che potrebbe anche risalire; in paesi dove il lavoro è sempre "un valore in sé" dietro a un autista ci può essere un ex finanziere, ma dietro a un finanziere di grido ci potrebbe essere un potenziale autista. Senza un particolare stigma sociale.
Il valore legale del titolo di studio spesso rappresenta una trappola sociale: anche chi ottiene a grande fatica una laurea ritiene di avere acquisito il diritto a un posto di lavoro di qualità superiore, ma il mercato la pensa diversamente. Così molti giovani finiscono nel vicolo cieco della disoccupazione giovanile.
Non c’è solo il mismatch delle competenze, c’è anche il mismatch tra ciò che crediamo di essere o vorremmo essere e ciò che il mondo pensa che siamo (o potremmo essere) effettivamente.
Non sono formativi
La formazione sarebbe la chiave per facilitare l’incontro tra domanda e offerta ma non funziona.
L’apprendistato dovrebbe diventare la forma contrattuale principale per l’assunzione dei giovani e tradursi nel vero contratto d’ingresso nel mondo del lavoro, agevolato per l’impresa e proficuo per il lavoratore che aumenta il suo rating professionale con lo scorrere dei mesi. È stato fatto molto per diffonderlo, ma ancora adesso è aperto lo scontro tra chi deve organizzare la formazione, fatto che blocca l’appetibilità e la riconoscibilità sociale di questi contratti.
La formazione potrebbe aiutare le piccole imprese, le più sofferenti nella ricerca di tecnici: non sono in grado di formarli al loro interno e si aspetterebbero scuole o enti di formazione più efficienti. D’altro canto, anche per il potenziale lavoratore la formazione è tutto.
Le imprese continuano a chiedere giovani con esperienza, una antinomia che crea frustrazione anche nei candidati migliori: se nessuno li assume non possono fare esperienza e se non fanno esperienza nessuno li assume.
Alla fine ciò crea un mercato del lavoro drogato e limitato a chi riesca a entrare nel circolo dei "professionalizzati": le imprese finora hanno preferito la corsa all’accaparramento del "tecnico bravo" tramite i rilanci in busta paga. Non è stata una scelta di sistema lungimirante. Aumentano però le iscrizioni agli istituti tecnici innovativi e questo fa ben sperare.
Non sono stabili
Soprattutto per alcune qualifiche del terziario, cresce la consapevolezza che si tratta di "esperienze" lavorative da abbinare a fasi limitate della propria vita: alcune occupazioni possono essere sempre più considerate fasi di integrazione al reddito, legate a periodi brevi della propria vita attiva.
Sono «old economy»
La manifattura, come anche l’agricoltura, cerca lavoratori in grado di assecondare rapidi mutamenti di business coniugati con l’innovazione. Le nuove tecnologie, legate allo sviluppo di internet ma anche all’espansione di una industria eco-compatibile creano professionalità ricercatissime e spesso incardinate su qualifiche "vecchio stile" declinate in modo moderno.
Se questo passaggio epocale viene ben comunicato ciò rende più attraente l’opportunità d’impiego anche per i giovani. È un problema delle imprese, è un problema delle strutture pubbliche e private che presidiano lo snodo dell’incontro tra domanda e offerta.
Non si vedono
Non funziona l’orientamento scolastico che fa comprendere a ciascuno le proprie attitudini professionali. Non è diffusa la pratica del "bilancio delle competenze" dal quale trarre indicazioni sul proprio futuro occupazionale.
In Italia solo il 5% dei giovani dichiara di "vedersi" occupato in un lavoro che comporti attività manuali mentre, ad esempio, in Svezia risponde allo stesso modo il 40% dei loro coetanei.
Non c’è il sigillo culturale negativo che invece in Italia si fatica a cambiare: eppure da noi la manifattura è strategica e predominante (siamo il secondo paese d’Europa), in Svezia marginale e poco incisiva. Un paradosso. Uno dei tanti in questa "disunione europea".