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 2010  novembre 18 Giovedì calendario

IN TURCHIA LARGO AI GIOVANI

[Sotto la pubblicità in turchia]
Giovani e alleanze con i grandi gruppi del largo consumo mondiale. Per la Turchia, che quest’anno vedrà il suo pil aumentare del 7% (e con una previsione del 5% medio fino al 2013), il futuro, almeno sul fronte dei consumi, sarà ancora legato all’età anagrafica della popolazione.

Con un tasso d’inflazione sceso al 7,5% e che dovrebbe attestarsi intorno al 5% nei prossimi tre anni, non è difficile aspettarsi un ulteriore balzo in avanti. Anche se pesa il livello di disoccupazione, intorno al 12-14%. Potenzialità di crescita connessa al fatto che il 48% dei circa 75 milioni di abitanti ha meno di 29 anni, l’82% possiede un cellulare e sono 65 milioni i contratti di telefonini attivi: addirittura bambini sotto i sette anni ne hanno uno. Qui si contano oltre 20 milioni di utenti su Facebook (tra i primi cinque nel mondo), mentre il paese negli ultimi sette anni ha triplicato il traffico aereo raggiungendo gli 85 milioni di passeggeri e ha visto aumentare di 7 milioni il numero di auto in circolazione, anche se tutt’ora 6 milioni di capifamiglia sono ancora senza un conto in banca.

Lo sanno bene i vertici delle principali imprese turche, che non nascondono quanto il dato socio-demografico sia importante per definire piani e strategie di marketing. E non solo. Perché, in un paese dove il 75% del prodotto interno lordo è garantito da un’oligarchia economica di una decina, al massimo 15 grandi conglomerati (Koc, Sabanci, Eczacibasi, Kale e Dogus per citarne alcuni) appartenenti ad altrettante famiglie che spaziano dalla finanza alle costruzioni, dall’auto e beni industriali ai media (tv, radio e giornali), l’approccio al mercato e al tipo di alleanze internazionali significa da un lato importare know how e dall’altro assicurarsi un’alternativa indolore al passaggio generazionale per il governo delle aziende.

Partnership estere per crescere.

Le alleanze internazionali restano molto importanti: i turchi hanno saputo scegliere bene dal punto di vista della governance, della delocalizzazione produttiva e del trasferimento di tecnologia in paesi emergenti. Ci hanno creduto Fiat, Unicredit, General Electric, Beiersdorf, Mannesman, Caterpillar, e il gruppo energetico austriaco Omv. Un altro esempio è quello di Eczacibasi holding, che ha siglato joint venture con brand internazionali come Villeroy&Boch, Beierdorf, Scharzkopf, Georgia Pacific, Monral, Baxter, Koramic e Lincoln Electric. «È cambiato il nostro approccio al mercato e ai consumatori», spiega Levent Ersalman, executive vicepresident del conglomerato familiare presente nei settori della sanità, dei materiali da costruzione, fino al largo consumo. «Prima in Turchia si produceva in attesa della domanda, oggi stiamo cominciando ad avere un approccio di marketing con il quale creiamo la domanda, rispondendo a bisogni latenti o ancora inespressi. La pubblicità? Qui è molto importante».

Un mercato potenziale enorme. «I consumi», spiega Francesco Pavoni, partner e managing director di The Boston Consulting Group, società di consulenza strategica per le imprese che proprio dall’inizio di quest’anno ha riaperto a Istanbul il proprio ufficio turco, che fa parte del sistema Italia-Grecia e Turchia guidato dall’a.d.

Riccardo Monti, «riflettono livelli di ricchezza molto polarizzati. C’è uno strato intermedio, che vale circa il 30-40% della popolazione concentrata per lo più nelle metropoli, in cui il livello reddito medio di circa 800-900 euro al mese consente di aspirare a un miglioramento del proprio stile di vita: dagli elettrodomestici ai telefonini, cominciano ad acquistare beni durevoli. E le aziende spingono sull’innovazione e sul lancio di nuovi prodotti sul mercato». Come ha fatto nel credito la AkBank. «Siamo stati i primi in Turchia, nel 2005, a lanciare il prestito via telefonino, via web (2006) e via Sms (2007) e uno dei primi esempi al mondo di postazioni automatiche che consentono di avere prestiti», dice orgoglioso Hakan Binbasgil, deputy ceo dell’istituto di credito del gruppo Sabanci Holding, che conta 15 mila dipendenti. «Grazie a questi sistemi oggi abbiamo 2 milioni di clienti (un terzo del totale, ndr) che non sono mai entrati in una filiale della nostra banca».

Circa il 60% della popolazione, invece, vive con 250-300 euro al mese e punta sul credito revolving, magari tenendo in tasca tre carte di credito diverse per poter finanziare gli acquisti e il debito. Tutto ciò sta trainando il sistema bancario, anche se il livello di indebitamento delle famiglie è di circa il 12% del pil rispetto a uno stesso valore pari a circa il 40% in Italia e oltre il 100% in Uk. «Nulla a che vedere», commenta Pavoni, «con qualche migliaio di benestanti che hanno comportamenti di acquisto che possono essere definiti da Europa occidentale. È curioso che al Salone nautico di Genova il 50% delle vendite di Azimut (gruppo Ferretti, ndr) è su mercati emergenti come quello turco e brasiliano. Louis Vuitton ha aperto il primo punto vendita nella parte asiatica di Istanbul: vuol dire che vedono una crescita». E Aclan Acar, chairman di Dogus Otomotiv, aggiunge: «Ogni anno vendiamo una decina di auto Lamborghini e Bentley, che tuttavia costano il doppio rispetto all’Italia, con costi di gestione pari al prezzo di una utilitaria».

Il lusso italiano piace. Il made in Italy? Ha ottime possibilità di riuscita. L’hanno capito alcuni imprenditori del Belpaese che recentemente hanno aperto a Istanbul: i Fratelli la Bufala e Cipriani (ristorazione), Giolitti (gelateria). «Ariston, per esempio, sta andando benissimo e quest’anno crescerà in modo significativo in Turchia. Nella moda Pal Zileri, Loro Piana, Zegna e altri brand la fanno da padrone», continua Pavoni. «Non è un caso che Vakko, il marchio di alta gamma leader di mercato del fashion turco, produca in Italia anche se la creatività e il design restano rigorosamente locali», dichiara Cem Hakko, chairman di Vakko, gruppo ereditato dal padre che si muove dal tessile (con 100 store e 1.000 dipendenti) ai media (radio e tv), all’organizzazione di eventi e matrimoni. «Questo mercato avrà investimenti forti nei prossimi anni, si prospetta un grande futuro».

Istanbul, 15 milioni di abitanti, rappresenta anche la cerniera tra il vecchio e il nuovo modo di concepire il lusso. A Istinie Park (nella parte occidentale della città) sorge la piazza dello shopping, dove si concentrano le principali griffe del fashion internazionale: da Dior a Ralph Lauren, passando per De Beers, Fendi, Miu Miu, Ermenegildo Zegna e Prada (che aprirà prossimamente). Il concetto di outlet e shopping mall si fondono insieme in una logica nuova, dove il cliente può vivere la sua esperienza d’acquisto tra negozi monomarca moderni e di design che occupano edifici a due piani in una zona periferica e non, come ci si aspetterebbe, al centro della città. E tra due anni sarà pronta una nuova struttura nel centro di Istanbul che andrà a fare concorrenza a quelle già presenti.


Pubblicità da 4,5 mld. E Murdoch ci crede

Il mercato pubblicitario turco vale oggi circa 2 miliardi di dollari (1,47 mld di euro), il 52% dei quali investiti sulla televisione. Secondo un recente report di The Boston Consulting Group, anche qui le potenzialità sono enormi, con una crescita stimata fino a 6 miliardi di dollari (4,5 mld di euro e circa lo 0,8% sul pil rispetto all’attuale 0,3%). Sulla Turchia scommette pure il gruppo News Corp. «Il nostro obiettivo», spiega Pietro Vicari, chief operating officer di Fox Turkey, il canale televisivo generalista in chiaro (circa 100 milioni di euro di fatturato) del gruppo di Rupert Murdoch, «è di aumentare i ricavi pubblicitari di almeno il 10% l’anno, ovvero più della crescita del mercato dell’advertising. E di aumentare, di pari passo, anche l’audience. I turchi sono grandi consumatori di tv, con molte similitudini con il Sud Italia. Occorre però avere palinsesti con prodotti di qualità, con attori e creatività locali».

Quello televisivo è un settore con un altissimo livello di competizione, dove si confrontano 24 canali nazionali in chiaro (tra analogico, cavo e satellitare). E dove tra il 2012 e il 2014 si attende il passaggio al digitale terrestre. Spesso però non è una competizione «corretta». «I nostri concorrenti, quelli posseduti da grandi conglomerate», conclude Vicari, «non hanno interesse a sviluppare il mercato dell’advertising. Seguono una logica meno orientata al business, ma al prestigio e alle lobby. Audience significa potere». Acquisizione di un altro canale in vista? «Sì, se si presenta l’occasione. Valutiamo tutte le opportunità di crescita».