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 2010  novembre 17 Mercoledì calendario

FINI ADESSO COMMEMORA GLI EROICI COMBATTENTI PARTIGIANI

E così se ne sono andati, alé op, verso nuove avventure. Gianfranco Fini e i suoi futuristi lasciano il governo facendo il gesto dell’ombrello a Sua Maestà il Cavaliere, che li guarda allontanarsi senza muovere un muscolo. Berlusconi è circondato dai suoi fidi e dalle sue guardie del corpo. Se ne stanno lì, «percossi e attoniti», come la terra (che «al nunzio» stava) nel Cinque maggio. Nessuno di loro alza la mano per salutare o per maledire. Non hanno neanche più voglia di gridare al tradimento. Sandro Bondi ha un’espressione particolarmente cupa. Sta evidentemente pensando che questa potrebbe essere «l’ultima ora dell’uom fatale».

E Italo Bocchino, Italo Bocchino che fa? In maniche di camicia, anche adesso che l’inverno è alle porte e i bambini chiedono quand’è che facciamo finalmente un pupazzo di neve, Italo Bocchino si trattiene a stento dall’improvvisare una tarantella, come Totò in tournée con Wanda Osiris, davanti alle telecamere di vedetta a Montecitorio. E Fini? Fini non è mai stato così impettito e contento di sé. Pierferdinando Casini non la smette di ripetere che (uno) l’aveva detto, lui, che sarebbe finita così, e che (due) adesso la Famiglia è salva, idem la Patria e Iddio. Massimo D’Alema si sfrega le mani, e si dà arie d’importanza, come un menagramo da novella pirandelliana, convinto che le disgrazie altrui siano merito suo.

Che cosa ci aspetta? È presto detto. Sentite questa: «Commemorare gli eroici combattenti partigiani che s’opposero ai rastrellamenti degli antifascisti è un dovere delle istituzioni». Giustissimo, e potrebbe averlo detto il presidente della repubblica o chiunque si riconosca nei valori (come si dice) della Resistenza o abbia anche soltanto la testa sul collo. Invece è un messaggio del presidente della camera all’Anpi della Bolognina, istituzione antifascistissima, nel 66º anniversario della battaglia partigiana del 1944 a Bologna. Ad averlo scritto è cioè Gianfranco Fini, già neofascista, ex segretario del Movimento sociale italiano, lo stesso camerata che per un trentennio (per più tempo di quanto ne abbia trascorso il Dux in camicia nera) ha portato occhiali scuri e indossato soprabiti neri di pelle tipo Gestapo o Ghepeù. Ecco dunque che cosa ci aspetta. Ci aspettano mesi e mesi (bene che vada un’intera campagna elettorale, se va male mezza legislatura) di ridicolaggini come questa e peggiori di questa. Avremo, in caso di ribaltone, un governo «fasciocomunista», come direbbe Antonio Pennacchi, Premio Strega 2010 per Canale Mussolini: l’ultimo tocco all’«autobiografia della nazione» evocata da Piero Gobetti dopo la Marcia su Roma. È il sogno di Nicola Bombacci (fondatore del Partito comunista nel 1921, fucilato a Dongo insieme a Mascellone nel 1945) che finalmente si realizza, un po’ a dimostrazione che il totalitarismo è Uno, come il Dio dell’Islam, e un po’ a ribadire quel che sappiamo anche troppo bene, cioè che l’Italia è un paese disgraziato, dove non c’è aria né per i poeti né per i navigatori, figurarsi allora per i santi. Intanto Pierluigi Bersani, a Vieni via con me, che non è un vero programma televisivo ma una recita scolastica, fa gli occhi dolci al leader dei futuristi, ciascuno illustrando le meraviglie della propria parte politica, la «destra» e la «sinistra», come se fossero la stessa cosa, e lo sono: l’eterno bla-bla dei demagoghi.

Questo inciucio estremo e senza rete tra ex fascisti ed ex comunisti è la ciliegina sulla torta d’una scena politica in cui si contemplano Ruby e i monologhi di Roberto Saviano in onore dell’unità nazionale (segue una lagna d’analogo sentire cantata da Luciano Ligabue). Siamo oltre il fondo di qualsiasi barile. Fosse almeno la farsa famosa dopo la tragedia. Ma c’è solo la farsa; non c’è stata nessuna tragedia. Oggi i fascistoni cercano la compagnia dei loro nemici naturali, gli antifascistoni; il passo successivo sarà nominare senatore un cavallo (o un cognato, visto che c’è già chi ha portato in parlamento le veline, e oggi la paga).