Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 18 Giovedì calendario

IL CLUB DI RAI 3 FA INORRIDIRE ANCHE I COMPAGNI


La Rete 3 della Rai è in vendita. È già stato fissato il prezzo. E in viale Mazzini stanno esaminando le offerte. La più interessante è quella di uno sceicco arabo che sarebbe disposto a comprarsi l’intera Rai, purché a prezzi da saldo. Si è fatta avanti anche una cooperativa rossa di Forlim-
popoli. Ma è disposta a sganciare pochi soldi, pur se ac-
compagnati da una grande solidarietà militante. Il terzo possibile acquirente è un magnate afghano, nostalgico della vecchia TeleKabul, creata dal compagno Sandro Curzi. Vorrebbe farla rivivere, in un tripudio di bandiere rosse. Tra un mese sapremo chi avrà vinto la gara per Rai3.
Naturalmente, quello che avete appena letto non è vero. Ma sarebbe auspicabile che lo fosse. Perché? Fra un istante proverò a spiegarlo. Alla luce degli ultimi eventi connessi al lavoro della rete in questione. E di quanto è accaduto dopo la messa in onda di un programma boom boom: il “Vieni via con me” della ditta Fazio & Saviano. Tutti sanno che, anni fa, la lottizzazione politica della Rai aveva assegnato la Tre al vecchio Pci. Le altre due reti erano diventate una proprietà di fatto della Dc, la Prima, e del Psi, la Seconda. Quando il sistema dei partiti andò a ramengo sotto i colpi di Mani pulite, quell’equilibrio saltò. Ma la Tre rimase ben salda nelle mani della sinistra post-comunista. E questa, in fondo, era una sicurezza. Bene o male che fosse, esisteva un partito a impedire le mattane di una rete importante e dei suoi programmisti. Da anni anche quel piccolo equilibrio
è saltato. Oggi la Tre non risponde più a nessuno. Non alla sinistra democratica di Pigi Bersani. Non a quella manettara di Tonino Di Pietro. E neppure alla sinistra con l’orecchino di Nichi Vendola. In fondo non sarebbe un male, dal momento che i partiti dovrebbero stare lontani dalla Rai.
Però c’è un guaio: la Tre non risponde più neppure ai vertici dell’azienda. Il presidente della Rai, Paolo Garimberti, e il direttore generale, Mauro Masi, nelle stanze della Tre contano come il due di picche. Potrebbero pure gettarsi dall’ultimo piano di viale Mazzini e precipitare sul cavallo sottostante. Ma dalla Tre, e in particolare dal Tg3, non partirebbe neanche l’ultimo dei cronisti per registrare il suicidio di quei due inutili signori.
Un personaggio chiave
Il ribellismo, la spavalderia, la sufficienza arrogante sono diventati il connotato fondamentale della Tre. Questi caratteri li interpreta alla perfezione il direttore della Rete, Paolo Ruffini, ritornato al comando in virtù di una sentenza giudiziaria, dopo l’interregno di Antonio Di Bella, l’ex direttore del Tg3. Ruffini è un personaggio che andrebbe studiato a fondo da un team di sociologi e politologi, perché nella sua storia riassume bene i percorsi tortuosi dell’Italia che conta.
Paolino è cresciuto in una famiglia che vantava due eccellenze di grosso calibro.
La prima era il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, un vero reazionario dal carattere ferrigno. Che un giorno ringhiò: «Tre cose, più di altre, hanno disonorato la Sicilia: la mafia, il romanzo del “Gattopardo” e lo scrittore Danilo Dolci!».
La seconda eccellenza era il padre di Paolo, Attilio Ruffini, deputato democristiano per sei legislature, più volte ministro, anche alla Difesa e agli Esteri. Benché fosse nato a Mantova, il doroteo Attilio aveva il proprio collegio elettorale a Palermo. Ed è facile comprenderne il perché, vista la presenza di quell’osso da mordere del cardinale Ernesto.
Ho scritto una volta che anche il giovane Paolo doveva avere nelle vene un tantino di doroteismo, aggiornato con furbizia. Invece di gettarsi nella bolgia dei partiti o entrare in seminario, Ruffini junior si diede al giornalismo. Lo ricordo come un bravo collega, notista politico del “Mattino” di Napoli e poi del “Messaggero”. La sua carriera fu rapida. Nel 1996, a soli 42 anni, diventò all’improvviso il direttore del Giornale radio Rai. Di qui spiccò un altro balzo sulla poltrona di direttore della Rete Tre.
Qualche malignazzo sostenne che aveva conquistato quel posto in virtù della militanza, sempre molto discreta, nella Margherita, la parrocchia degli ex democristiani di sinistra. Ma una volta arrivato al vertice della Tre, rivelò di essere tutto l’opposto rispetto alle tradizioni di famiglia.
Un tempo si sarebbe detto: ecco un perfetto cattocomunista. Ma oggi il comunismo non esiste più. Dunque cancelliamo quell’etichetta. E diciamo che il Ruffini è soltanto un uomo di potere che considera la Tre una sua proprietà personale. Ancorché pagata dai contribuenti e da quanti versano il canone alla Rai.
Non ho mai avuto rapporti con il colosso di viale Mazzini. Ma ho imparato che il potere dei direttori di rete dipende dalla forza dei programmi che mandano in onda. In questo momento, il potere di Ruffini è cresciuto a dismisura. Per merito dell’audience fenomenale di “Vieni via con me”: 6 milioni di telespettatori per la prima puntata, 9 milioni nella seconda.
È stato uno tsunami per gli altri talk show. Lunedì sera, il sinistro Gad Lerner, con il vecchio “Infedele”, è stato ridotto al 2,14 per cento, appena 600 mila spettatori. Anche quelli della Tre, tutti rossi, mordono la polvere. A cominciare dal “Ballarò” di Floris, il Santoro dei poveri, per finire al “Parla con me” della ridanciana Dandini.
Il circolo degli arroganti
Lo strapotere ha reso il Ruffini arrogante all’eccesso. Davanti alla sacrosanta richiesta del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, di potersi confrontare con Saviano in diretta sul tema Lega e ‘ndrangheta, il boss della Tre ha risposto no. Poi, bontà sua, ha concesso a Maroni soltanto una nota scritta di replica o un video registrato.
Ma il troppo, o il troppo poco, stroppia. Anche i televisionisti di sinistra mugugnano. Me ne sono reso conto martedì sera, vedendo sulla 7 “Otto e mezzo” di Lilli Gruber. Un programma che sta diventando sempre più fazioso e prigioniero dell’ossessione anti-Cavaliere, errore madornale per una rete privata e piccola. Eppure, l’autore della Gruber, Paolo Pagliaro, è stato schietto su Ruffini: il suo no a Maroni è opaco e la motivazione poco liberale.
Alla Tre si saranno chiesti: Pagliaro chi? E questa Gruber è forse la vecchia deputata europea del defunto Ulivo? Li sento sghignazzare, Ruffini e i suoi pretoriani. Da quando hanno scoperto di avere milioni di baionette, si sentono dei padreterno. E non vogliono avere tra le palle chi non ha portato il cervello al loro ammasso.
Dunque, niente Maroni in diretta, perché potrebbe mandare al tappeto quel santo di Saviano. E giù con il manganello su chi non è più in grado di difendersi. Mi è sembrato ignobile affermare, sempre per bocca di Saviano, che il vecchio politologo Gianfranco Miglio era un sostenitore della mafia. Ho conosciuto bene Miglio, uno dei padri della Lega: non era per niente così.
Se fosse ancora vivo, avrebbe dato all’autore di “Gomorra” la paga che si merita. Ma il professore è scomparso nove anni fa. Dunque era la vittima giusta per la ditta Fazio & Saviano. Il loro motto è abbastanza fetido: pestare i morti e tagliare la lingua ai vivi.