Gilberto Oneto, Libero 17/11/2010, 17 novembre 2010
L’ALTRO RISORGIMENTO
Dei 3.600 ufficiali dell’esercito delle Due Sicilie ben 2.311 “transitano” dopo la sconfitta in quello italiano. Invece dei 90 mila e passa soldati solo un ussaro passa con i garibaldini. Tutti gli altri si danno alla guerriglia, si rifugiano all’estero o vengono presi prigionieri e si rifiutano di entrare nell’esercito vincitore. La cosa la dice lunga sull’atteggiamento contrapposto dei “signori” e del popolo verso l’unità.
I vincitori non sanno come gestire l’enorme massa di prigionieri: più di 30 mila sono accatastati nei campi di concentramento a Nord dove muoiono a migliaia di stenti, freddo e malattie. A loro si aggiungono 3.500 pontifici e – per par condicio anche qualche centinaio di garibaldini, dopo l’Aspromonte. Per liberarsene il governo sabaudo e Garibaldi si inventano due soluzioni diverse, entrambe miserabili. Torino cerca di deportarli in qualche lontana terra d’Oriente, d’Africa o dell’America meridionale e prende contatto con una mezza dozzina di ambasciatori stranieri ricevendone risposte grondanti disgusto. È un ignobile capitolo di storia patria che merita una trattazione a parte.
Sistema creativo
Garibaldi invece escogita un sistema assai più “creativo”: per sbarazzarsi dei prigionieri borbonici li spedisce agli Stati Confederati d’America del generale Lee impegnati nella guerra civile e in drammatica necessità di uomini.
L’idea nasce da Chatam Roberdeau Wheat, ufficiale americano della Legione britannica che affianca Garibaldi, che decide di rientrare in Louisiana per combattere per la propria terra. Il compito di gestire la “transazione” viene affidato al capitano Bradford Smith Hoskiss, un altro veterano della Legione britannica, e a Liborio Romano. Lo spericolato curriculum di Romano (che la sera prima del cambio di regime è ministro di Francesco II e il mattino dopo del governo di Garibaldi) e le sue frequentazioni (è l’uomo della Camorra) garantisce la perfetta riuscita dell’operazione.
Così fra il dicembre del 1860 e la primavera successiva qualcosa come 2.500-3.000 soldati napoletani vengono spediti in Louisiana con navi americane o garibaldine che battono con sfrontatezza bandiera nordista.
Essi vengono inquadrati soprattutto in alcuni reparti, come il battaglione Italian Guards del 6° reggimento Louisiana, e il battaglione Garibaldi Guards. La titolazione a Garibaldi denota sia la notorietà del Generale che lo stato di confusione: evidentemente nessuno prende sul serio l’idea che Garibaldi possa (come sostiene la vulgata patriottica) andare davvero a combattere con i nordisti, neppure lui stesso. La cosa però non piace ai soldati napoletani (che hanno una precisa opinione sul biondo eroe) che pretendono che la denominazione sia variata prima in Italian Legion, e poi in Bourbon Dragoons (Dragoni di Borbone). A capo del battaglione Italian Guards c’è il tenente colonnello Giuseppe Della Valle: dai ruolini si nota che i soldati napoletani sono mescolati a volontari dai cognomi padani che costituiscono un buon terzo degli effettivi e la maggioranza degli ufficiali. Questo si spiega sia con il più consolidato inserimento dei padani (soprattutto dei liguri) nella comunità locale, sia con ilfattoche–comesièvistogli ufficiali napoletani hanno in larghissima parte scelto di passare nell’esercito italiano.
Altri meridionali sono inquadrati assieme a settentrionali nel 10° e nel 22° reggimento di fanteria della Louisiana. Degli originari 953 effettivi del 10° reggimento alla sua fondazione, al momento della resa del generale Lee, nell’aprile del 1865, i superstiti sono solo 18. L’unico rimasto della Compagnia I (composta solo da italiani) è il fante Salvatore Ferri, di Licata, veterano dell’11° battaglione del 2° reggimento di fanteria del Regio Esercito borbonico.
La stessa Compagnia I del 10° è particolarmente interessante anche perché sembra sia il solo reparto “italiano” dell’esercito confederato a essere venuto in contatto con “connazionali” inquadrati nelle armate unioniste. Il 15 settembre 1862, nella battaglia di Harpers Ferry (sorta di anticipazione della più nota Guadalajara) si trovano infatti fra le forze contrapposte il 10° (che fa parte dell’armata del leggendario generale sudista Thomas Jonathan “Stonewall” Jackson) e il 39° reggimento di New York, la famosa Garibaldi Guard, nella quale ci sono anche alcuni italiani. I nordisti se la battono lasciando al nemico 11.000 prigionieri, fra cui la Guard quasi al completo (530 uomini). Nel successivo scambio di prigionieri, il reparto nordista che veste la camicia rossa è fatto scortare fino al punto di consegna proprio dal 10° in segno di dileggio. A Jackson, incuriosito dagli sfottò, viene spiegato che «They are just home made yankees», che sono insomma solo dei nordisti “alla pummarola”, con una libera traduzione che si addice al colore delle uniformi dei prigionieri.
Eroismo in campo
I soldati napoletani “ceduti” da Garibaldi si sono trovati in una terra che non è la loro, eppure la grande maggioranza si è comportata con dignità, alcuni di loro con eroismo. Molti sono morti per una causa che altri hanno scelto per loro ma che hanno comunque finito per preferire a quella italiana. Fra i superstiti, pochissimi sono in seguito rientrati in Italia: tutti gli altri hanno adottato come propria la nuova patria per cui hanno combattuto, anch’essa sopraffatta come quella che avevano dovuto lasciare: due volte sudisti, due volte aggrediti, due volte sconfitti da prepotenti.