Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 17/11/2010, 17 novembre 2010
CELEBRARE HALLOWEEN FESTE LOCALI E IMPORTATE
Anche quest’anno tra fine ottobre e l’inizio di novembre le strade delle nostre città sono state invase da zucche, scheletri, gatti neri e tutto l’armamentario legato alla festa di Halloween. Mi chiedo perché una ricorrenza che abbiamo importato da qualche tempo dagli Stati Uniti, e che ha poco a che fare con la tradizione italiana, debba prendere così tanto il sopravvento. Non si rischia così di dimenticare il vero significato del giorno dei Morti e dei Santi a favore di un modo di celebrarli che non ci appartiene?
Paola D’Agostino
Roma
Cara Signora, Halloween è una festa di origine celtica che si celebra nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre e significa All hallows Eve, vigilia di tutti i Santi. È divenuta popolare e ha avuto la sorte di altre festività, più o meno tradizionali, che si prestano a essere sfruttate commercialmente. È accaduto del Natale, quando l’albero ha soppiantato il presepe e San Nicola (Santa Klaus) è diventato più noto come benefattore dei bambini di un altro personaggio popolare, la Befana. È accaduto del giorno di San Valentino (14 febbraio) che celebra l’amore romantico e risale forse all’Alto Medioevo. Quando una festa tradizionale acquista una certa popolarità e incrocia la società dei consumi, il grande bazar mondiale, popolato da artigiani, pasticcieri e piccoli fabbricanti di giocattoli, coglie l’occasione e la trasforma in un evento mondano privo di qualsiasi connotazione religiosa. Capisco che non le piaccia, ma resistere a queste mode è una battaglia perduta.
Non è vero, d’altro canto, che l’abitudine di festeggiare sguaiatamente i Santi e i Morti sia una novità importata dall’altra sponda dell’Atlantico. Se avrà l’occasione di vedere Que viva Mexico!, il grande film incompiuto girato da Sergej Ejzenstejn all’inizio degli anni Trenta, constaterà che il giorno dei morti, a sud del Rio Grande, è una festa chiassosa popolata da scheletri di tutte le dimensioni. Fra le popolazioni ortodosse della penisola balcanica invece è un’occasione per banchettare intorno alle tombe dei defunti.
In Italia, prima che la Chiesa moderna cercasse d’instaurare costumi più severi era spesso una sorta di carnevale. Carlo Dossi, uno scrittore milanese di cui si ricorda quest’anno il centenario della morte, progettò un libro dedicato ai «Giorni di festa». Nelle sue Note azzurre, uno straordinario Zibaldone di pensieri e riflessioni pubblicato ora integralmente da Adelphi, scrisse che il libro avrebbe raccontato la storia di tutte le festività del calendario religioso, civile, familiare, e che accanto a ogni festa vi sarebbe stato l’elenco dei cibi che si mangiavano tradizionalmente in quella giornata. In un’altra nota scrisse che a Milano, durante il «carnevaletto dei morti», il 2 novembre, i fopponatt (i visitatori del «foppon», parola milanese per camposanto) «vanno ad ubriacarsi nelle vicine osterie». A Roma invece la festa durava otto giorni e gli amanti si scambiavano un «ossetto de morto», un dolce di marzapane in forma di tibia, mentre sulla Scala Santa di San Giovanni in Laterano «si vestono gli scheletri da monache e frati con le torce in mano». I cibi più frequentemente mangiati in quei giorni erano i ceci e il guanciale di maiale (tempia). Sul modo in cui Milano festeggiava il giorno dei Morti, cara Signora, esiste anche una poesia di Delio Tessa scritta in milanese dopo la rotta d i Ca porettone l nove mbre 1917. S’intitola «L’è el dí de mort. Alegher!». Ecco la traduzione italiana dei primi versi: Torno da viale Certosa, torno dai Cimiteri in mezzo ad un semenzaio di avvinazzati che vociano, di festaioli che cantano e che scherzano in santa pace a braccetto della ragazza. È il dì dei Morti, allegri! Sotto le pergole si balla, si ride e si tracanna; passano i tram neri di quelli che tornano a casa per mangiare e sbevazzare: ceci e tempia... allegri.
Sergio Romano