Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 17/11/2010, 17 novembre 2010
BOMBA A COSTANZO, POI LA REVOCA DEL 41 BIS —
La bomba che doveva uccidere Maurizio Costanzo scoppiò alle 21.40 del 14 maggio 1993, aprendo una voragine sull’asfalto di via Ruggero Fauro, strada del quartiere romano dei Parioli, ma lasciando illesa la vittima designata. Fin da subito si pensò a un attentato mafioso, il primo sul continente, collegato alla dura reazione dello Stato contro la strategia stragista di Cosa nostra. La mattina seguente però, lo Stato diede una risposta di tutt’altro segno: 140 decreti di «carcere duro» imposti un anno prima ad altrettanti boss detenuti furono revocati. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori di giustizia, e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l’alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del governo.
Ministro della Giustizia era Giovanni Conso, subentrato da tre mesi a Claudio Martelli, e direttore dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato, lo stesso che due mesi prima, il 9 marzo, aveva messo per iscritto la proposta di revocare i decreti; i provvedimenti del 15 maggio portano la firma del suo vice. Questo passo indietro, non motivato allora e mai rivelato in seguito, non è lo stesso giustificato da Conso durante l’audizione davanti alla commissione antimafia della scorsa settimana. E’ un altro, precedente di sei mesi a quello di cui ha parl at o l ’ ex Guardasigilli. E mentre a novembre si trattò di una mancata proroga alla scadenza dei provvedimenti decisi un anno prima, a maggio ci fu la revoca disposta prima del termine ultimo.
Di questa iniziativa Conso non ha parlato alla commissione antimafia, né i commissari gliel’hanno chiesto. I nomi dei detenuti per mafia riammessi al regime di reclusione ordinario non sono famosi, così come quelli non rinnovati a novembre, ma resta l’importanza della decisione autonoma del governo, all’indomani dell’attentato di via Fauro. Perché può essere interpretata come un segnale dell’istituzione penitenziaria di voler tornare alla normalità, anche per evitare altre bombe, come ha ammesso Conso per la scelta successiva. L’ipotetica trattativa fra Stato e mafia andava avanti dal 1992 e fra i punti in discussione c’era proprio l’abolizione del «41 bis» introdotto all’indomani della strage di Capaci che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. I decreti revocati il 15 maggio ’93 sono nel gruppo di quelli firmati subito dopo l’eccidio: ovvio che simili scelte governative interessino gli inquirenti che a Firenze, Caltanissetta e a Palermo stanno ancora tentando di comporre il quadro di quella stagione. Così come interessavano il pubblico ministero Gabriele Chelazzi, morto nel 2003 mentre indagava a tempo pieno sulle connessioni tra il terrorismo mafioso e le risposte dello Stato.
L’appunto per il ministro della Giustizia stilato il 9 marzo ’93 da Nicolò Amato proponeva esplicitamente la revoca dei decreti sul «carcere duro». Scriveva il direttore dell’amministrazione penitenziaria che questa soluzione «rappresenterebbe un segnale di forte uscita da una situazione emergenziale e di ritorno a un regime penitenziario normale». In casi di nuovi eccidi, aggiungeva, si sarebbero eventualmente potuti ripristinare. Evidentemente le revoche firmate dal suo vice il 15 maggio erano state decise in precedenza, ma sono diventate esecutive all’indomani del - l’esplosione di via Fauro. E comunque non hanno fermato la strategia terroristica di Cosa nostra. Due settimane più tardi infatti, il 27 maggio, ci fu la strage di via dei Georgofili, 5 morti e 48 feriti. Nella sua relazione, il presidente dell’Antimafia Giuseppe Pisanu si chiede: «E’ il "colpettino... per stuzzicare la controparte" di cui parlarono Riina e Brusca? O, in altri termini, un messaggio diretto a caldeggiare una richiesta o a riavviare una trattativa?».
A luglio del ’93 giunsero a scadenza altri 300 e più decreti che imponevano il «41 bis» ad altrettanti mafiosi; quelli varati all’indomani della strage di via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Stavolta vennero reiterati, e pochi giorni dopo, tra il 27 e il 28 luglio, arrivarono puntuali gli attentati omicidi di Roma e Milano. A novembre, scadenza successiva di un terzo blocco di «41 bis», Conso stabilì di non prorogare il «carcere duro» per altri 140 quaranta boss, con una decisione presa, a suo dire, «in assoluta solitudine, senza consultarmi con nessuno, pensando che una scelta diversa avrebbe dato il destro ad una possibile minaccia di altre stragi».
Attentati successivi non ce ne furono, ma solo per caso, secondo le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Lui stesso, il 23 gennaio 1994, doveva far saltare in aria una Lancia Thema riempita di tritolo e chiodi per colpire un gruppo di carabinieri in servizio allo stadio olimpico di Roma. L’azione fallì e quattro giorni dopo, a Milano, insieme al fratello Filippo fu arrestato il capo di Spatuzza, Giuseppe Graviano; quello che gli aveva commissionato l’auto-bomba e gli aveva confidato che, grazie a Berlusconi e «al paesano nostro» Dell’Utri, «ci siamo messi il Paese nelle mani». Nella sua relazione Pisanu scrive: «La stagione terribile delle stragi si chiuse il 27 gennaio 1994 con l’arresto dei fratelli Graviano, capi indiscussi dell’ala più violenta, e con l’ascesa del "moderato" Bernardo Provenzano ai vertici di Cosa nostra».
A parte il fallito attentato all’Olimpico, la spiegazione di Conso all’Antimafia potrebbe avere un senso se le mancate proroghe di novembre fossero state il primo passo indietro. Ma a maggio c’erano già state oltre 100 revoche di «41 bis», e l’alleggerimento non era servito a evitare le stragi successive. E’ probabile che quando sarà ascoltato dai magistrati come testimone, dopo Nicolò Amato e con altri protagonisti di quella stagione, all’ex ministro sarà chiesto conto anche di quella prima decisione.
Giovanni Bianconi