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 2010  novembre 16 Martedì calendario

L’HI TECH DI DOMANI? IN INDIA È OGGI

Quanto è lontano il giorno in cui un computer ci riconoscerà guardandoci in faccia? In cui interagiremo con lui a gesti e parole, senza sfiorare né il monitor, né il mouse, né la tastiera? In cui una strisciata di un badge trasformerà all’istante il più anonimo degli uffici nel nostro ufficio? Quanto è lontano tutto questo? Cinque, dieci, quindici anni? No. Settemila chilometri. Quelli che separano l’Italia da Bangalore, la caotica metropoli nel sud dell’India dove tutte le principali imprese tecnologiche globali hanno aperto i laboratori in cui questo futuro si può già toccare con mano.

Tra il 2000 e il 2008 i centri di ricerca e sviluppo indiani sono passati da 191 a 780. Le ragioni sono, almeno in parte, note. Vanno dai costi più contenuti alla disponibilità di capitale umano; dalla diffusione dell’inglese ai vantaggi di un sistema legale meno capriccioso di altri nel tutelare la proprietà intellettuale. Ma secondo Anil Menon, il presidente per Globalisation & Smart Connected Communities di Cisco c’è dell’altro. «Se non sei rilevante in India nei prossimi cinque anni - spiega - non potrai esserlo per il resto del mondo nei 10-15 successivi. Perché è in paesi in crescita e con bisogni complessi come l’India che emergeranno i nuovi modelli di business. Restando a San Jose puoi fare molto. Ma è qui che devi vivere se vuoi capire le sfide che hai di fronte». Una convinzione che ha spinto la multinazionale californiana ad aprire a Bangalore il suo «secondo quartier generale globale» e non una semplice succursale. È qui che siede il numero due dell’azienda, il chief globalisation officer Wim Elfrink. Ed è qui che vengono portati avanti alcuni dei progetti di punta di Cisco, come quelli per rendere più intelligenti gli edifici in cui viviamo e lavoriamo.

Uno di quelli preferiti da Menon si chiama personal virtual office, ed è una specie di ufficio universale che non appena "legge" il badge di un dipendente carica automaticamente le impostazioni associate a quell’utente: dal suo interno telefonico alla sua agenda degli appuntamenti; dalle impostazioni dell’aria condizionata a quelle delle luci. Non mancano neppure le immagini dei suoi familiari che magicamente appaiono nei portafoto virtuali.

Colpi di teatro a parte, lo scopo non potrebbe essere più concreto: occupare meno spazio e consumare meno energia. «In una giornata tipo in una grande azienda - spiega Menon - almeno il 20-30% delle scrivanie sono vuote perché gli occupanti sono in viaggio o in riunione o da un cliente». Se ognuno potesse sedersi dove gli pare ci sarebbero risparmi sia sul fronte opex («quando il dipendente se ne va l’ufficio entra in modalità risparmio energia») che capex («per un campus come il nostro significherebbe avere bisogno di un edificio in meno»). Il tutto senza rinunciare a quell’elemento di socialità che viene sacrificato nel telelavoro.

A qualche chilometro di distanza dalla sede della Cisco, Sudhir Dixit lavora assieme a un manipolo di altri ricercatori degli HP Labs a una ventina di progetti, alcuni dei quali renderanno superflui i badge oggi impiegati per "animare" gli uffici virtuali. Per mostrarmi di cosa si tratta mi fa sedere davanti a un computer che, pur avendomi "visto" solo una volta e per pochi secondi, grazie a una webcam 3D mi riconosce all’istante. Non solo. Quando gli chiedo di aprire un programma esegue i miei ordini e lancia l’applicazione. Mentre quando parlo con il ricercatore al mio fianco ignora ciò che dico perché un microfono direzionale gli ha suggerito, correttamente, che ho rivolto altrove la mia attenzione. Ciò che fa il computer a fianco non è meno sorprendente: me ne accorgo quando inizio a scorrere un album fotografico e a ingrandire a piacimento le immagini che lo compongono semplicemente gesticolando nell’aria, senza toccare nulla né proferire parola.

Visti con gli occhi di chi interagisce in maniera fluida con un pc, i progetti di Dixit rischiano di sembrare dei divertissement o poco più. Ma, sostiene il direttore degli HP Labs, equivarrebbe a commettere un errore di prospettiva. Soprattutto in un paese come l’India in cui il 90% degli abitanti, oltre un miliardo di persone, non ha mai usato una tastiera in vita sua. «È per questo - spiega Dixit - che lavoriamo per far sì che interagire con un pc divenga semplice quanto parlare con una persona». O almeno quanto usare un telefono cellulare. Un altro progetto degli HP Labs si chiama non a caso SiteonMobile e consentirà ai gestori dei siti web di rendere accessibili i propri servizi (come controllare lo status di un ordine o convertire una valuta) attraverso dei semplici sms. L’obiettivo? Non limitarsi più a servire i 60 milioni di indiani che posseggono un pc, ma raggiungere anche i 600 milioni dotati di un cellulare.

Una gara, quella per l’abbattimento del digital divide, a cui prendono parte in molti. Tra cui Intel che nel suo centro ricerche di Bangalore, oltre a progettare sofisticati prototipi di chip per computer ad alte prestazioni, ha avviato un progetto di frugal innovation per il settore creditizio. Nel primo caso i clienti tipici sono società di Wall Street che necessitano di elaborare enormi quantità di dati a velocità elevatissime. Nel secondo, spiega il presidente di Intel India Praveen Vishakantaiah, sono «quegli istituti di credito in cerca di una piattaforma di rural banking per servire le regioni dove oggi non avrebbe senso aprire una filiale».

Una capacità unica di coniugare alto e basso che secondo S. Bhaskaran, senior director del Philips Innovation Campus di Bangalore, è il risultato di fattori sia ambientali che demografici. «I nostri ricercatori - spiega - conoscono i bisogni dei mercati in via di sviluppo e sono abbastanza giovani da affrontare i problemi senza preconcetti. Non sanno ancora che certe cose "sono impossibili da fare". Ed è proprio per questo che riescono a farle».