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 2010  novembre 14 Domenica calendario

MISSION, LA REALTÀ SVELATA - A

metà del primo decennio del secolo, l’Italia veniva conquistata dal libro di un giovane cronista appassionato che già prima del l’esordio si era creato una piccola fama leggendaria fra gli scrittori suoi coetanei – me incluso – per come si infiltrava nei giri bassi della camorra: la sua passione per i meccanismi del l’economia e della criminalità l’avevano portato a raccontare l’Italia in modo inedito, coinvolgente ma comprensibile. Gli eccessi di retorica gli venivano perdonati per due motivi: Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, era uno che capiva la complessità e la sapeva spiegare; e aveva coraggio.

Negli stessi anni, come se l’inizio di questo secolo richiedesse opere forti sulla complessità di sistema, in America si affermava una serie tv su temi simili: la connessione fra traffico di droga, società, politica nazionale ed economia internazionale. Si chiamava The Wire, e andò in onda dal 2002 al 2008, in cinque stagioni: fra decine di personaggi di ogni ceto e percorso, tra tossici, poliziotti, criminali, politici, insegnanti, svettava come protagonista la città di Baltimora, una specie di Napoli della East Coast, poco lontana da Washington D.C., tutta quartieri popolari, scaricatori di porto, vitalità e traffici vari.

A differenza del libro di Saviano, The Wire racconta per immagini: non gli è concessa la sintesi, il riassunto di fatti, il privilegio di parlare per cifre e fare collegamenti tra le cose senza doverle mostrare ogni volta. Gli autori di The Wire, avendo a disposizione più di dieci ore per stagione – il gran vantaggio della serie sul cinema – si imbarcano nell’impresa titanica di mostrare i collegamenti. Creano dunque una serie priva di personaggi principali, completamente corale, e tanto aperta da avere per tema in ognuna delle cinque stagioni non tanto le svolte biografiche dei suoi personaggi quanto, di volta in volta, una sfaccettatura di quel sistema assurdamente complesso che è una metropoli di oggi: così, si passa dallo spaccio dei quartieri popolari neri al riciclaggio del denaro sporco; dal contrabbando portuale alla corruzione del sistema politico; dai problemi della scuola pubblica nei quartieri poveri alla crisi del giornalismo d’inchiesta.

Per capire le differenze fra Gomorra e The Wire, al di là dell’ispirazione simile, mi viene da dire che il primo è un libro cattolico e la seconda un’opera protestante.

Saviano è come Gesù che sale sul monte dove il diavolo – la camorra – lo tenta con le sue ricchezze: in quanto giovane del luogo, Saviano aveva la possibilità concreta di entrare nei giri di camorra, ma una specie di santità civile gli ha dato il coraggio di guardare in faccia il diavolo e ora può salvarci dal peccato di essere italiani informandoci e facendoci partecipare emotivamente alla sua impresa. Intercede per noi. In Gomorra la verità ci è data dal suo sacrificio fisico (nell’ultima pagina il narratore affonda fino alle cosce in una discarica sommersa dal diluvio e si salva aggrappandosi a un frigorifero), e tutto il tremendo destino dell’autore dopo il successo porta questa relazione autore-lettori fino alle stimmate. Il recente debutto come autore-conduttore televisivo di Saviano rischia di scindere il fortunato equilibrio di informazione e santificazione che è il cuore della sua poetica e della sua missione: nella parola scritta è più facile che vinca il contenuto, mentre vederlo occupare da solo la scena in uno studio televisivo può sbilanciarlo in direzione dell’eroismo, della santità del personaggio: più rito che informazione. Il coraggio e la purezza dell’uomo solo in scena per il monologo vengono valorizzati dalla regia, messi in luce da un audio verité che fa sentire fisicamente il fruscio della giacca e dei fogli d’appunti, le esse sibilanti, lo schioccare involontario delle labbra secche, e l’eco naturale dello studio televisivo silenzioso come una chiesa.

The Wire può invece essere considerata un’opera protestante, centrata sulla responsabilità individuale di autori, personaggi e spettatori, che non consente letture univoche: un po’ come quando i protestanti cominciarono a tradurre la bibbia in lingue correnti perché ognuno la interpretasse da sé invece di avere la verità calata dall’alto. Partiamo dagli autori: creata dall’ex reporter David Simon, la serie può considerarsi un’opera collettiva: il coautore Ed Burns, ex insegnante ed ex detective, dà la sua esperienza decisiva nei due campi, e i due sono aiutati da tre grandi autori di crime: Richard Price, George Pelecanos, Dennis Lehane. Ognuno dà il suo contributo, quasi nell’anonimato. Quanto ai personaggi: nessuno viene esaltato, nessuno la passa liscia, nessuno è al di sopra delle critiche; non ci sono santi né eroi, e le persone di buona volontà ritratte nella serie – che siano professori, poliziotti, spacciatori che si oppongono agli eccessi di violenza – sono gente comune che dà il proprio contributo al bene comune, in quello stile di medietà e responsabilità individuale tipico della mentalità protestante.

Così se Gomorra ha avuto il merito di concentrare l’attenzione generale sulla camorra e Saviano è diventato un simbolo, un trascinatore, sulla piazza mediatica e anche nelle piazze reali della nazione, The Wire nel frattempo è assurto a punto di riferimento per chi vuole cambiare il sistema penetrandone i meccanismi: recentemente, il sindaco di Reykjavik ha imposto che i membri del suo partito vedessero tutta la serie per capire quanto in una città tutto è connesso e complesso. Il motivo è che in The Wire si percepisce sempre la possibilità del bene, di comportarsi con l’ideale protestante della Good Will, la buona volontà, e aleggia sempre, sia nelle buone intenzioni, sia in piccole determinate occasioni di intervento sociale, il diritto dell’utopia a esistere, a essere parte della realtà anche più dura.

The Wire ha dato tanto all’America, culturalmente. A formalizzare una rilevanza già conquistata sul campo, quest’anno è arrivato un riconoscimento che è quasi un’investitura ufficiale: David Simon ha ricevuto il premio MacArthur. Ogni anno, la John D. and Catherine MacArthur Foundation premia un numero variabile di talenti americani in ogni campo creativo dalle scienze, alle arti, all’economia. Altrettanto interessante della somma ricevuta (cinquecentomila euro, cospicuo investimento di denaro/tempo nella libertà creativa individuale) è il soprannome del premio: «Genius Award». L’hanno vinto, tra gli altri, Stephen Jay Gould, Richard Rorty, David Foster Wallace, Merce Cunningham, Harold Bloom... David Simon va dunque a unirsi a un elenco di nomi che hanno fatto l’America recente, entra nella storia del pensiero americano.

Il suo premio va idealmente diviso con tutti i pionieri di questa nuova forma d’arte di cui stiamo vivendo l’età dell’oro. Oltre alle gioie che ci danno, le serie tv rappresentano forse perfino un nuovo promettente modello di lavoro: dove il valore emerge dalle qualità dei singoli e non si smarrisce nelle manie di grandezza individuali, e ha per scopo il bene comune, o per lo meno, il maggior piacere e guadagno intellettuale possibile per il maggior numero di persone.