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 2010  novembre 17 Mercoledì calendario

Siccome ha le orecchie a punta, l’hanno paragonato al dottor Spock di Star Trek. Anche a mago Merlino

Siccome ha le orecchie a punta, l’hanno paragonato al dottor Spock di Star Trek. Anche a mago Merlino. Si sono dimenticati di Nosferatu. L’hanno preso in giro per la collezione di eccentrici berretti scozzesi, una cinquantina, creati su suo disegno da una modista, e hanno svilito il pompon che li impreziosisce a «testicolo di lana». Hanno dimenticato, quelle canaglie dei giornalisti, che la storia del professor Gianfranco Miglio, senatore della Repubblica, 81 anni, di cui 47 trascorsi in cattedra e 30 da preside della facoltà di scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, traspira epicità. Le origini, intanto. Comasche a partire dal Mille. Un avo che faceva il notaio quando Dante non era ancora nato. Un albero genealogico che dal Concilio di Trento in poi attesta l’assenza di intrecci familiari al di sotto della linea del Po. Una trisnonna paterna che veniva da Würzburg e che sino alla fine contò le galline nella sua lingua madre, «eine, zwei, drei...». Un nonno paterno, ardente repubblicano riconoscibile dalla lavallière, la cravatta col fiocco degli anarchici, che atterriva il piccolo Gianfranco raccontandogli di quando, giovane bersagliere, era stato in Calabria a combattere il brigantaggio e aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai banditi. Un nonno materno della Val d’Intelvi che costruì strade e ponti in Turchia e rapì la futura moglie, una graziosa tedesca, in Romania. Il fratello del nonno che posò l’ultimo tratto della Transiberiana e morì mentre cavalcava nel Caucaso, dove stava lavorando alla ferrovia Transiraniana. E poi il padre, uno dei primi pediatri italiani, che acquistò la tenuta di Domaso, in cima al lago di Como, dalla sorella del primo ministro Giorgio Sidney Sonnino, e che si arrabbiò soltanto una volta in vita sua, quando Churchill, nel 1945, sostandovi per un giorno a dipingere, si portò una damigiana d’acqua nel timore di finire avvelenato. Oggi il professore abita a Como, in collina, in quello che nel catasto di Carlo era segnato come Ronco dell’Abate. Sale a Domaso soltanto per la vendemmia, evento al quale Giorgio Bocca chiese di poter partecipare dopo aver assaggiato il suo bianco eccelso. Quando non gli tocca scendere a Roma, passa le giornate curvo su un pulpito del Seicento trasformato in scrivania, a scrivere e a compulsare qualcuno dei suoi trentamila volumi. Quante ore dedica ancora allo studio, professore? «Mai meno di cinque al giorno. Altrimenti non riesco a prender sonno». Sul serio? «Prima di coricarmi, devo sentire d’aver fatto qualcosa di utile. Io mi realizzo soltanto se lavoro». È sempre stato così severo con se stesso, oltre che con gli altri? «Fino ai quarantadue anni mi sono macerato nell’insoddisfazione, convinto d’essere un buono a nulla. Poi ho mangiato del pesce e mi sono ammalato. È stata la mia fortuna». Davvero? «Accadde d’estate. Credevo che fosse influenza e la combattevo a modo mio: bagni ghiacciati nel lago e beveroni di gin tonic e Punt e Mes. Diventai giallo, febbre violenta. Era epatite virale. Ho passato un mese in ospedale, tutto solo, a riflettere. Lì ho concluso che come uomo e come studioso non ero poi così male. Una convinzione che non mi ha più abbandonato». Perché l’Italia unita le fa tanto schifo? «Perché è figlia illegittima di una congiuntura storica particolare. Ha mescolato insieme popoli che dovevano restare separati, che non hanno nulla in comune». Che cos’hanno di tanto diverso nordisti e sudisti? «Il modo stesso di concepire la vita. Noi abbiamo nelle vene sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro. I meridionali invece vivono per l’otium, il dolce far nulla, i sollazzi, un totale disprezzo per la fatica. Questa è la storia dei due popoli. Una differenza antropologica, inutile star lì. Detto questo...». Detto questo? «Riconosco che i meridionali sono stati danneggiati dall’unificazione. Il loro inserimento nel Regno è avvenuto soltanto per effetto della spedizione garibaldina. Da lì in avanti lo Stato unitario li ha sempre fregati. Ogni volta che appariva all’orizzonte una prospettiva finanziaria, il Nord se ne appropriava. È dalla fine degli anni Cinquanta che cerco una via per raddrizzare questo Stato unitario». L’ha trovata nel federalismo? «Tutti ne parlano e nessuno sa che cos’è, neppure i vescovi del Veneto». Lo spieghi lei. «Non ha niente a che vedere con Cattaneo e Gioberti. Io immagino un federalismo autoritario, una nuova forma dello Stato moderno morto nel 1989 con il crollo dell’Urss. Quel tipo di Stato era una macchina da guerra per le conquiste territoriali. Ma oggi i conflitti comportano l’utilizzo delle armi atomiche, che distruggono anche chi vi ricorre». In concreto: tre cantoni, Nord, Centro e Sud? «Esatto. Il reddito complessivo della Basilicata è un quarantesimo di quello della Lombardia. Ci vuole un equilibrio fra i componenti della federazione e il contenitore federale. Altrimenti le differenze producono differenze». Quindi poveri con poveri e ricchi con ricchi? «Non è proprio così. Diciamo che la Lucania deve batter cassa con le regioni del Sud. Del resto non è colpa nostra se il Nord gode di condizioni geoeconomiche migliori. La Padania l’ho inventata io negli anni Sessanta e adesso la Fondazione Agnelli ha dimostrato che se stesse per conto suo sarebbe la più ricca regione d’Europa». Però accanto ai tre cantoni lei continua a prevedere le cinque regioni a statuto speciale. Perché? «Perché hanno combattuto per la loro indipendenza. La Sicilia contro l’armata di Nino Bixio. La Valle d’Aosta contro l’esercito di De Gaulle. L’Alto Adige contro l’ottusità di Roma. Tutti dimenticano che gli statuti speciali sono in realtà armistizi, concessi a queste regioni prima della Costituente». Professore, da quarant’anni predica il federalismo ma non c’è verso di vederlo fiorire. Come mai? «Perché gli italiani sono ignoranti. Io gli ho cucinato il piatto in tutti i modi. Non vogliono saperne di mangiarlo». Diffidano dello chef? «Ma no. È che sono abituati alle risorse finanziarie a pioggia, soprattutto al Sud. Sanno che devono cambiare, ma li preoccupa il costo del cambiamento. I due milioni e mezzo di miliardi di debito pubblico sono fatti di nicchie dentro le quali stanno al calduccio. Ecco perché io dico che ci vuole un federalismo duro, calato dall’alto». Senta, e ai fratelli Bandiera, ai martiri di Belfiore e ai milioni di soldati mandati a morire prima a Custoza e poi sul Piave che cosa diciamo? Che si sono sacrificati per niente? «Tutti da dimenticare. Hanno buttato via la loro vita». Ogni cantone avrebbe le sue leggi? «Certo. Non si può dare lo stesso diritto civile e penale a tutte le regioni. Lei capisce che la vendetta per tradimento, consumata abitualmente al Sud, non è concepibile al Nord». Mi faccia capire: il codice meridionale dovrebbe consentire a un marito cornificato di farsi giustizia da solo? «Di più. Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate». Sono passati sei anni da quando lei spronò il Nord alla rivolta fiscale, ma non sembra che la gente abbia troppa voglia di finire in galera... «Quella è stata la nostra Waterloo. E lo sa perché? Gli italiani sono in prevalenza evasori. La sola idea di destare il can che dorme, di avere la Guardia di finanza tra i piedi, li terrorizza». Ha proclamato: «Tre mesi senza pagare le tasse e lo Stato unitario va a picco». Chi comincia? «Io sono pronto. Quella sulla casa non l’ho versata. L’ho giudicata iniqua. L’abitazione è un diritto, un bene primario. Sarebbe come introdurre un’imposta sulla felicità». Nel 1995 aveva previsto il crac «tempo tre mesi, sei mesi, forse un anno». «Ho sottovalutato lo spirito di sopportazione degli italiani. Se i francesi fossero stati vessati la metà di quanto lo siamo stati noi, avrebbero già fatto tre rivoluzioni». Lei entrò nella Dc nel 1943, ne uscì nel 1959 e da allora ha quasi sempre votato scheda bianca. È stato estimatore di Eugenio Cefis, Giovanni Marcora, Bettino Craxi, Francesco Cossiga, Randolfo Pacciardi, dei comunisti del Laboratorio politico, di Comunione e liberazione. Infine l’idillio con Bossi. Non le sembra un percorso politico un po’ ondivago? «Speravo di trovare un leader capace di prendere decisioni. Mi ero illuso con Cefis, il boiardo di Stato per eccellenza. Forse Marcora sarebbe stato il mio uomo, ma è morto troppo presto». L’hanno definita un Voltaire alla ricerca del suo Federico il Grande. Adesso vede qualche personaggio su cui sarebbe disposto a investire? «Assolutamente no». Neanche Bossi? «L’ho chiamato io nel 1989, perché volevo conoscerlo. È rimasto lì, sulla poltrona dove adesso siede lei, per più di tre ore. Mi rendevo ben conto di che cos’era: un politico, quindi un ignorante. E da ignorante l’ho sempre trattato». Però gli aveva dato il permesso di telefonarle anche in piena notte. «Sì, e a volte l’ha fatto. Io in cinque minuti gli risolvevo problemi che a lui sembravano insormontabili. Come quella volta che la Lega aveva intascato 200 milioni dalla Montedison. Era disperato: “Domani ho il congresso, mi faranno a pezzi”. Gli consigliai un diversivo: “Butta avanti il progetto di Costituzione federale. Toh, eccoti i dieci punti”. Così nacque lo statuto di Assago. Riscossi il triplo dei suoi applausi. Lui crepava di gelosia. Non poteva tollerare che i militanti gridassero “Mi-glio, Mi-glio”. Sa, il mio cognome è un bisillabo. Suona bene, come Bos-si». Prima il Senatùr lancia il federalismo e poi lo abbandona. Quindi apre il Parlamento del Nord e poi lo chiude. Indice il referendum sotto i gazebo per l’autodeterminazione della Padania e poi non gli dà seguito. Proclama la secessione e poi dice che s’è sbagliato. Inaugura il parlamento di Chignolo Po e poi lo chiude. Annuncia che la Lega deve collaborare con l’Udr di Cossiga e Mastella e poi ci ripensa. S’inventa il blocco padano e poi non ne parla più. Fregoli non avrebbe saputo far meglio. «Bossi insegue soltanto la sua fortuna personale. Come tutti i politici italiani, punta a contare, non a comandare. Mi chiedono: come hai fatto ad andare d’accordo per tre anni con un tipo così? Certo, avessi avuto a disposizione un Metternich...». Invece senta come ce l’ha descritto: «Tapino, orecchiante, rabbioso, infido, teppa, mostricciatolo, arruffapopolo, pigmeo, analfabeta, mentitore arabo, levantino col gusto della menzogna, ubriaco, botolo ringhioso, sogliola da schiacciare, Robespierre da barzelletta, contapalle, comiziante da bar». E Bossi che le dà del «minchione, arteriosclerotico, panchinaro, poveraccio, vecchio coi capricci di un bambino», fino all’intuizione copernicana: «Miglio è una scoreggia nello spazio». Non è stato un bello spettacolo, le pare? «No, non lo è stato». L’ultima volta che vi siete visti? «Due anni fa, in casa di Fassa, allora sindaco di Varese. In quell’occasione gli chiesi: “Tu hai realmente una forza armata pronta a sparare?”. Mi rispose: “Sì, sì, la sto preparando”. Ma da come farfugliava capii che stava raccogliendo un mio suggerimento e che non sarebbe stato capace di tradurlo in realtà. Perché, vede, a un certo punto un uomo politico deve impugnare il fucile». La sua ben nota teoria dell’ineluttabilità della guerra civile... «Certo, soltanto che Bossi blatera e basta. Una volta m’ha detto: “Io non ho difficoltà a far venire dalla Croazia dieci autocarri carichi di armi”. Ma fammi il piacere! Chiacchiere». Confessi: lei non ha digerito lo scherzetto che Bossi le combinò nel 1994, quando la indicò come ministro delle Riforme istituzionali nel governo Berlusconi e invece all’ultimo momento le preferì Francesco Speroni. «Quello fu un tiro mancino di Scalfaro, ossessionato dall’idea che io avessi i mezzi per sovvertire la sua Repubblica parlamentare. E da ministro li avrei avuti, gliel’avrei distrutta. Così il capo dello Stato disse pressappoco a Bossi: se tu rinunci a Miglio, io ti consentirò poi di rovesciare Berlusconi senza mandarti subito alle urne. È nello stile di Bossi negoziare con chi lo snobba, e Scalfaro lo snobbava, accidenti se lo snobbava. Poi sono diventati culo e camicia». C’era rivalità anche fra lei e Scalfaro? «Sa com’è, siamo stati compagni di università, laureati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, io con 110 e lode, lui con un voto più basso. Tenga conto che ero stato incaricato da Bossi di trovare un candidato per il Quirinale, favorevole al federalismo, sul quale la Lega avrebbe fatto convergere i voti. Ebbi contatti con tutti, da Forlani a Craxi. Leo Valiani fu il più patetico: “Corro subito in Tv a dire che siamo amici e che mi batterò per una Costituzione federale”. Dovetti trattenerlo per la giacca. Spadolini voleva addirittura tenere un discorso pubblico su Cattaneo. Con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama, sulle pendici di Monte Mario, davanti a un camino spento. Ecco, Scalfaro non mi ha mai perdonato di non essere stato dalla sua parte. E me l’ha giurata perché ho ascoltato a braccia conserte il suo primo discorso da presidente, senza mai applaudirlo». Lei disse che «Bossi non è in grado di governare niente, nemmeno di fare l’assessore in un comunello». «Confermo. Non è capace di proiettare un lavoro nel tempo, di stare dietro una scrivania. Se fosse diventato padrone della Padania, un minuto dopo si sarebbe posto il grosso problema di come rovesciarlo». Impresa difficile? «Impossibile. Quando Maroni cadde in disgrazia, fui invitato a un incontro segreto in casa di una signora milanese. “Voglio far fuori Bossi”, mi rivelò Maroni. Gli obiettai che, con Bossi vivo, la Lega non avrebbe mai avuto altro capo all’infuori di lui. “Quand’è così, devo cambiare programmi”, concluse Maroni. Tornò a cuccia e fu riammesso nel movimento. Adesso Bossi si sta dando da fare con D’Alema per portarlo alla presidenza della Regione Lombardia». Lei ha raccontato che il presidente Cossiga le telefonò minacciando di perseguitare i leghisti, di mandare le Fiamme gialle a spulciare nelle loro partite Iva, di far trovare l’auto di Bossi imbottita di droga. Non è accaduto niente di tutto questo. Perché? «Cossiga s’è convinto che la Lega potesse servire al suo disegno. È lo stesso motivo per cui, nonostante Andreotti insistesse tanto, non volle farmi senatore a vita: “No, tu devi stare nella Lega e pilotarla”, mi disse. “Se ti nomino senatore a vita, quelli ti mettono in un angolo”». Professore, che cos’è per lei la bontà? «Un difetto. Una persona buona non si mette in politica, e io ho dedicato la vita a studiare la politica. Capisce perché fra le mie virtù non può esserci la bontà?». Non mi starà dicendo che la politica è una cosa sporca, come frigna la maggioranza degli italiani. «Assolutamente no. È che la politica, come pensava Machiavelli, ha regole diverse dall’etica. La morale è una cosa, la politica un’altra. Ecco perché non posso soffrire le anime belle, i La Pira, i Dossetti, i Lazzati, con la loro idea astratta dell’uomo. Non sopporto i cattolici sociali che vorrebbero insegnare al Padreterno come andava fatto l’uomo. Io invece accetto l’uomo come Dio l’ha creato, un impasto di bene e di male». Dunque crede in Dio. «Tutti gli scienziati a un certo punto nutrono il sospetto della presenza di Dio. In me questo sospetto è molto radicato». Lei sostiene d’essere «nato carogna». Il professor Firpo arrivò a definirla «la più aggiornata manifestazione del Demonio». «Cattivo sì, ma non luciferino. I miei studenti mi adoravano. Il rettore dell’università di Pavia un giorno si sentì dire da marito e moglie: “Ah, il professor Miglio! Che uomo! Noi siamo suoi allievi. Pensi che io sono stato bocciato quattro volte e lei cinque”. Erano raggianti. Tanto che il rettore, tornato a Pavia, ordinò ai suoi docenti: “Dovete bocciare di più”». Almeno le piacciono i bambini? «Sì, soprattutto perché scorgo in loro l’anticipazione di ciò che saranno da grandi. E non sono doti propriamente positive quelle che vedo». È stata solo una carognata l’aver definito il linciaggio «forma di giustizia nel senso più alto della parola»? «Io ho affermato che il linciaggio è una forma elementare di giustizia. È diverso. I processi sono concrezioni costruite sul linciaggio. C’è la giustizia dei legulei, che è un imbroglio ai danni del prossimo, e c’è la giustizia del popolo». E allora mi spiega perché gli uomini hanno inventato i tribunali? «Un’autodifesa. Vedendo il bandito impiccato in piazza, tutti pensarono: e se un giorno capitasse a me? Così è venuto fuori questo sistema di contrappesi, fatto di toghe, codici e cavilli». Lei è per la pena di morte? «No. Per l’ergastolo. Che è peggio della pena di morte, quando dura tutta la vita». Com’è che ha sempre potuto spararle grosse senza mai pagare dazio? «Una volta Martelli, quand’era ministro della Giustizia, mi fece interrogare in Procura a Milano per il mio libro in cui istigo alla disobbedienza civile. Alla fine il magistrato mi chiese di fargli una dedica sul frontespizio». Professore, come regolerebbe il flusso migratorio degli extracomunitari? «Il destino dell’Europa è di rivivere le invasioni barbariche. Anche nella Gallia di Cesare c’erano i servitori. La difficoltà è mantenere la distinzione fra schiavi e liberi». Sta teorizzando la schiavitù? «Dovremo incorporare alcuni milioni di immigrati che svolgeranno i lavori rifiutati da noi europei. Ma bisogna evitare i mescolamenti, se vogliamo far sopravvivere l’Occidente. Sono proprio gli extracomunitari a chiedercelo. È questo Occidente, così come lo vediamo, che li attrae, che li induce a lasciare la loro terra. Vogliamo distruggerglielo?» In ogni caso lei sogna di morire da cittadino della Libera Repubblica Padana. «Ho una riserva: di morire svizzero».