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 2010  novembre 17 Mercoledì calendario

Gli 80 anni del Padrino che non cede - Alla non più verde età di 80 anni, compiuti ieri sotto il segno dello Scorpione, don Totò Riina si ritrova a essere un boss tutt’altro che «pensionato»

Gli 80 anni del Padrino che non cede - Alla non più verde età di 80 anni, compiuti ieri sotto il segno dello Scorpione, don Totò Riina si ritrova a essere un boss tutt’altro che «pensionato». E, se bisogna dar credito alle notizie «de relato» che lo riguardano, continua a essere un capo per nulla fiaccato da 17 anni trascorsi in isolamento, con una vita scandita dalle regole imposte dal regime carcerario duro, il famigerato «41 bis». Ma don Totò è mafioso per scelta e per fede. E dunque, sa benissimo che questo è il prezzo che deve pagare per le colpe «sue» e dell’intera organizzazione. Lui è il capo e l’unica maniera per alleggerire la sua posizione (è sepolto da mille ergastoli) sarebbe quella di intraprendere l’improbabile strada della collaborazione. Parola che lo fa inorridire solo a sentirla pronunciare ai magistrati che, di tanto in tanto, provano a «toccargli il polso» andandolo a trovare nella sua cella del carcere di Opera, a Milano. Allora non gli rimane altro da fare che sedere immobile sulla sedia della saletta dove avviene il collegamento in teleconferenza durante i suoi numerosi processi e gestire le poche possibilità di comunicazione con l’esterno. Così ci ha abituati, don Totò: lo sguardo fisso, i muscoli della faccia come paralizzati, le mani intrecciate quasi a sottolineare lo sforzo della concentrazione per non perdere il filo della faticosa lingua giudiziaria che lo riguarda. Certo, ogni tanto gli scappa la calma e così si aggrappa al telefono e chiede di parlare con gli avvocati. Da 17 anni fa questa vita di re in esilio. Ovviamente non ha più le prerogative che gli venivano garantite dalla facile latitanza di un tempo. Non sta molto bene in salute e ogni mattina deve ingoiare le pillole che proteggono le sue coronarie. Poi indossa i soliti abiti di uomo di campagna, lana e velluto quasi sempre, e attende l’ora che gli permette di lasciare la cella. Fino a qualche tempo fa era sorto il problema di affiancargli qualcuno che potesse anche aiutarlo, viste le sue condizioni di salute, nelle incombenze più faticose. Nel dubbio che tale precauzione si potesse rivelare una falla del cordone sanitario eretto per impedirgli di comunicare con il suo «popolo», è stato scelto un compagno di cella nordafricano che non parla neppure bene l’italiano. Un destino che perseguita don Totò, quello di non poter comunicare. Basti pensare che i primi anni di isolamento all’Asinara il boss li trascorse sorvegliato notte e giorno dalla luce artificiale (spenta neppure di notte) e da agenti di custodia sardi che gli parlavano nel loro, incomprensibile, dialetto. Eppure non si muove di un millimetro, il capo di Cosa nostra. Anzi, proprio nella fase più confusa delle indagini sulle sue «gesta» (le stragi del ’92 e del ’93), proprio nel momento in cui il «coinvolgimento istituzionale» nello stragismo mafioso sembra aver riaperto una discussione dolorosa e difficile, don Totò tenta di accreditarsi come «vittima sacrificale» di una congiura politica che tenta di «scaricare sulle mie spalle ogni responsabilità». Per la verità non è, questo, un atteggiamento inedito. Già qualche anno fa, quando Massimo Ciancimino raccontò ai magistrati la storia della «trattativa» e rivelò l’esistenza del «papello» definendolo come «l’elenco delle richieste di Riina allo Stato per far cessare le stragi», già allora il padrino si alzò dalla sedia per dire: «Perché non interrogate il figlio di Ciancimino?». Venerdì sarà accontentato. Don Totò «collegato» da Opera e Massimo Ciancimino in aula a Palermo: il palcoscenico non sarà quello delle stragi ma quello di un processo che va avanti da 40 anni. Sarà la Corte d’Assise del dibattimento per il sequestro e l’assassinio (1970) del giornalista de L’Ora Mauro De Mauro a interrogare Massimo Ciancimino. Riina è l’unico imputato, accusato di quell’omicidio. Il giovane testimone, invece, risponderà sui particolari descritti dal padre in un appunto, consegnato qualche settimana fa da Massimo, in cui parlava del delitto De Mauro, collegandolo all’omicidio del procuratore Pietro Scaglione, all’attività dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo e alla figura dell’avvocato Vito Guarrasi. Interverrà Riina? È molto improbabile che il vecchio boss resista alla tentazione di interloquire, per metterlo in difficoltà, con Massimo Ciancimino. Ed è naturale che tenterà di spostare l’attenzione sull’aspetto «politico» dei misteri siciliani. Il padrino, d’altra parte, questa «vocazione» l’ha manifestata «minacciando» la stesura di un memoriale. Come nel caso di Salvatore Giuliano. A proposito del bandito di Montelepre, anch’esso tornato improvvisamente di moda: la procura di Palermo ha riaperto le indagini scrutando anche nel passato remoto di Riina. Che al figlio Giovanni confida: «Mi volevano distruggere, ma io sono ancora qua, e mi sento forte».