GABRIELE BECCARIA, La Stampa 17/11/2010, pagina 29, 17 novembre 2010
“Fermiamo i robot assassini” - Sei agosto 1945: a Los Alamos arriva l’annuncio che una delle «unità» è stata lanciata e a sera Robert Oppenheimer sceglie l’ingresso principale del laboratorio per un’entrata trionfale
“Fermiamo i robot assassini” - Sei agosto 1945: a Los Alamos arriva l’annuncio che una delle «unità» è stata lanciata e a sera Robert Oppenheimer sceglie l’ingresso principale del laboratorio per un’entrata trionfale. Tutti applaudono e battono i piedi e, lui, gongolante, spiega che ai giapponesi la prima bomba atomica non è affatto piaciuta. Nell’euforia generale non si sa ancora che ha causato 80 mila morti e Oppenheimer, che dirige il Progetto Manhattan, sembra aver cancellato la frase pronunciata appena poche settimane prima, il 16 luglio, durante il test nel sito di Trinity: «I fisici - aveva detto con angoscia - hanno conosciuto il peccato e questa è una conoscenza che non si può perdere». Chiedete chi è il simbolo della tragica ambivalenza della scienza del XX secolo è la prima risposta è sempre Oppenheimer, il genio progressista che al presidente Harry Truman confessò di «avere le mani sporche di sangue» e finì perseguitato dal maccartismo. Ma luce e ombra non hanno mai smesso di scontrarsi e si stanno amplificando nel XXI, come si spiegherà durante «Science for Peace», la conferenza internazionale in programma a Milano domani e dopodomani. Le sfide del presente stupirebbero anche Oppenheimer e a raccontarle, tra gli altri, ci sarà il filosofo della scienza Telmo Pievani. Professore, dopo la Bomba, come si rischia di perdere di nuovo l’innocenza, evocando il famoso verso del «Bhagavad-Gita» pronunciato da Oppenheimer: «Sono diventato Morte, il distruttore dei mondi»? «Nel campo delle armi di distruzione di massa di tipo biologico, prima di tutto: uno studioso americano, Marc Ostfield, ha messo in guardia sui rischi del bioterrorismo, che potrebbe utilizzare armi devastanti e incontrollabili, perfino peggiori di quelle atomiche. E poi nel settore dei robot bellici: si parla sempre più di droni, che colpiscono il nemico in base a un programma automatico, ma il loro utilizzo pone gravi questioni etiche. L’aereo senza pilota non è in grado di capire se l’obiettivo, un’antenna radar per esempio, è stato volutamente sistemato accanto a una scuola». Se queste sono manipolazioni criminali o distorte della ricerca, che cosa stanno facendo gli scienziati per contrastarle? «Anche se appare controintuitivo, la scienza, dal Progetto Manhattan in poi, si è sempre interrogata sull’uso dei suoi saperi in modo distruttivo oppure solidaristico. Oggi un esempio sono le iniziative per imporre rigide regolamentazioni sui robot in guerra: siamo sicuri di volerli alimentare con software che prevedono l’uccisione di esseri umani?». Molti pensano che gli scienziati si dividano in «idealisti» e in «pragmatici», i primi ingenui e i secondi pericolosi: è così? «Non darei questa immagine: se si leggono gli scritti degli scienziati pacifisti, che dal ‘45 in poi si sono impegnati per il disarmo, si vede come siano permeati di pragmatismo: uno degli argomenti è che la trasformazione delle armi atomiche, sempre più maneggevoli e facili da realizzare, moltiplicano i rischi di una generale perdita di controllo. Caduto l’equilibrio delle superpotenze, cade anche il principio paradossale della deterrenza». Qual è l’emblema di uno scienziato «buono»? «Pensando all’Italia, voglio citare Franco Rasetti, uno dei “ragazzi di via Panisperna”, che rifiutò di partecipare alla realizzazione della Bomba. E a “Science for Peace” presenterò anche un video inedito su Joseph Rotblat: collega di Oppenheimer, fu uno dei pochi ad abbandonare il Progetto Manhattan dopo una cena con il generale Leslie Groves, quando capì che la nuova arma non era destinata a piegare la Germania, ma in un futuro prossimo a minacciare l’Urss. Tornò quindi a Londra, dove fondò un laboratorio per sfruttare la fisica nucleare in medicina e le “Pugwash Conferences” con cui promosse il disarmo: l’organizzazione ha vinto il Nobel per la Pace nel ‘95 e a ritirare il premio è stato un fisico che purtroppo pochi conoscono, Francesco Calogero». E oggi quali sono le iniziative più interessanti per la pace? «La Fondazione Veronesi, che promuove la Conferenza, si sottolinea il ruolo della ricerca per ridurre le tensioni legate alla povertà e alla scarsità di risorse: le biotecnologie alimentari possono contrastare la fame senza ridurre la biodiversità, mentre le fonti rinnovabili democratizzano gli usi dell’energia». Ma gli scienziati devono cambiare approccio? Come si conciliano l’imperativo della scoperta con i dilemmi morali? «C’è un paradosso che non si scioglie: da una parte la curiosità è un impulso fondamentale e arginarla con regole precostituite è ingenuo, dall’altra la scienza non può avere pretese di innocenza, ma non vedo in circolazione degli Stranamore. Il punto è decidere democraticamente quando andare avanti e quando fermarsi. La vita artificiale è un esempio: i batteri di Craig Venter avranno conseguenze globali e quindi diventano una questione pubblica. Ecco perché il presidente Obama ha reagito con l’unico atteggiamento corretto, chiedendo più ricerca e allo stesso tempo più controlli».