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 2010  novembre 17 Mercoledì calendario

Generazione Ryanair “Partiamo come i nonni” - La nuova «Ryanair generation» è una fila che si allunga davanti ai cancelli dell’ambasciata americana a Elgin road, bussa alle porte della sede diplomatica australiana in Wilton Terrace e si siede inquieta nelle agenzie di viaggio specializzate in visti di lavoro a Dawson Street o sul lato occidentale dell’O’Connell Bridge

Generazione Ryanair “Partiamo come i nonni” - La nuova «Ryanair generation» è una fila che si allunga davanti ai cancelli dell’ambasciata americana a Elgin road, bussa alle porte della sede diplomatica australiana in Wilton Terrace e si siede inquieta nelle agenzie di viaggio specializzate in visti di lavoro a Dawson Street o sul lato occidentale dell’O’Connell Bridge. È l’Irlanda che se ne vuole andare. Uomini con meno di trent’anni che cercano voli a basso costo per trasferire la propria vita e lasciarla per sempre altrove. Erano scomparsi agli inizi degli Anni 90, quando il boom aveva trasformato il Paese nell’El Dorado, sono ricomparsi in massa, rappresentazione plastica di una crisi che ha catapultato Dublino nel suo incubo ciclico: riconsegnare all’emigrazione il compito eterno di certificare la sconfitta. «Ogni settimana cento neolaureati partono per New York, per Toronto o per Melbourne, portandosi dietro anni di formazione e di studi pagati da tutti noi». Gary Regmond, 24 anni, è il presidente dell’Unione Nazionale degli Studenti. Il vento gelido che arriva dal fiume gli screpola la pelle. Non ci fa caso. Sono le dieci del mattino e le strade sono semivuote. Si stringe nel cappotto. Balbetta. Gli succede quando è nervoso. «I giovani di talento non hanno alternative. Le loro speranze se le sono mangiate le banche. Ma hanno troppa qualità per lasciarsi travolgere, così fanno come i loro antenati: attraversano l’Oceano. Eppure sono diversi dai padri. Sono specialisti strepitosi. E il lavoro lo trovano. In genere nel giro di una settimana. Non riesco a immaginare niente di più triste». Lui si è laureato in ingegneria e la scorsa settimana ha portato davanti al Palazzo del Governo quarantamila studenti. La più grande manifestazione della storia irlandese. Non sapendo dove sbattere la testa, il ministro del Tesoro Brian Lenihan, alle prese con la disoccupazione al 12,5% e schiacciato dai 50 miliardi di prestiti alle banche, aveva deciso di raddoppiare le tasse universitarie. Da 1500 a 3000 euro. C’è stata la rivolta. Regmond ha guidato la folla, Lenihan ha fatta retromarcia. Ha aumentato le tasse. Ma di cinquecento euro, un terzo del previsto. «Perdere gli studenti significa perdere il futuro. E un Paese senza un futuro è solo un cimitero». È sicuro che anche le multinazionali attirate dagli incentivi fiscali se ne andranno presto. Dice che è proprio per questo che l’Europa spera che l’Irlanda chieda di accedere ai fondi comuni. Per omologarla. Toglierle la diversità. «E quando Intel o Google capiranno che le intelligenze migliori sono fuggite, non faranno altro che seguirle. L’anno prossimo parto anch’io». Senza rimpianti? «Nessuno». Secondo l’Ufficio nazionale di Statistica dall’aprile 2009 all’aprile 2010 oltre sessantamila persone hanno lasciato il Paese. Cinquemila ogni mese. E se nel 2007 Dublino aveva registrato sessantamila arrivi dagli altri Paesi europei, negli ultimi dodici mesi ne ha contati meno di seimila. I laureati che abbandoneranno l’Irlanda entro i prossimi quattro anni saranno centocinquantamila. Una fuga biblica. L’ennesima. Il primo ministro Brian Cowen, alle prese con estenuanti trattative con l’Unione Europea e con il Fondo Monetario Internazionale, ha invitato tutti a «tenere la testa fredda». Ma la storia lo tira per la giacca e torna a mostrargli il suo ghigno più cattivo. C’è un popolo che deve rinunciare alla sua terra. Povertà e persecuzioni religiose spinsero gli irlandesi ad andarsene già nel 1600. Colpa dei Tudor. Volevano che tutti fossero protestanti e parlassero inglese. A metà Ottocento, in epoca elisabettiana, devastata dalla Grande Carestia, una massa di persone allo stremo salpò per gli Stati Uniti portandosi dietro le malattie della denutrizione. Tra il 1841 e la seconda guerra mondiale 40 milioni di uomini, donne e bambini - quasi venti volte la popolazione attuale - giocarono col destino attraversando il mare. La statua di Annie Moore, prima emigrante a entrare nel centro d’accoglienza di Ellis Island, è diventata un simbolo. È esposta all’ingresso del Cobh Heritage Centre. Aveva quindici anni quando si imbarcò a bordo della Nevada assieme a due fratelli più piccoli. Ieri una mano anonima le ha attaccato sul petto un biglietto che dice: «Annie, ci risiamo». All’agenzia di viaggi «Trail Finder», a Dawson Street, Catrina Harvey sbriga la pratica di Richard McKelly. Richard ha 23 anni, è laureato in architettura, e fino a sei mesi fa lavorava per una grande impresa di costruzioni. Sono falliti assieme. «Ho mandato dieci domande in giro, non volevo andarmene da Dublino. Poi ho capito che era una lotta inutile. Mia madre ha pianto una settimana quando le ho detto che partivo per New York. Mio padre mi dato una pacca sulle spalle e ha sussurrato: è giusto». Prende dal portafoglio la foto della fidanzata. Dice che lei lo seguirà. Ride. Catrina Harvey gli offre da bere. «Solo questa settimana ne ho visti altri sette come lui, a caccia del primo low cost per mollare ogni cosa. Sì, la generazione Ryanair è tornata». Nessuno muove un dito per trattenerla. Forse nessuno può. È sera tardi. La corrente che arriva dal fiume Liffey fa sbattere con violenza il portone di metallo dei Windmill Lane Studios di Ringsend Road. Un palazzo mitico, bianco e verde, dove gli U2 hanno cominciato la carriera. Naomi Moore è seduta davanti a uno Steinbach a coda suonato da David Bowie, su una poltroncina di pelle nera che la settimana scorsa ospitava Lady Gaga. È lei che dirige gli studios: sale di registrazione e scuola di musica. Ha meno di quarant’anni, bionda, elegante, diretta. «Hanno ubriacato il Paese facendo credere alla gente che tutto fosse possibile. Il governo - che se ne deve andare - e le banche ci spingevano a comprare case, a investire, a spendere. Una follia. Ora l’Irlanda è in lotta. Il mercato della musica ha attraversato la crisi senza grandi problemi. Quando le cose vanno male la creatività esplode. È successo anche stavolta. Ci è mancato l’equilibrio. Sarà difficile riportare i ragazzi a casa». Non sono mai le stelle a pagare. «Ordinary people, come diceva la canzone di Christine Moore. Ricorda?». Si aggiusta lo scialle e spegne la luce della sala prove. Nell’aria resta sospesa la nota di un pianoforte.