Dario Di Vico, Corriere della Sera 16/11/2010, 16 novembre 2010
SUPERMERCATI, RISCOSSA DEI PICCOLI. TROVANO UN ALLEATO, L’ANTITRUST - È
un conflitto sordo. Di quelli di cui si parla solo nei convegni per addetti ai lavori, di quelli che spaccano trasversalmente le associazioni di rappresentanza, di quelli che alla fine decidono della sopravvivenza o meno di migliaia di piccole imprese. Parliamo del braccio di ferro tra grande distribuzione e fornitori, un confronto quotidiano, stressante e che in tempo di ristagno dei consumi si combatte sui centesimi di euro. Ora però con una mossa che ha sorpreso tutti è intervenuta l’ Antitrust presieduta da Antonio Catricalà. Tradizionalmente l’ authority ha sempre guardato con grande favore alle mosse dei big della distribuzione, li ha considerati degli alleati naturali nella battaglia pro-concorrenza e pro-consumatori. Ma deve essere successo qualcosa, il potere dei supermercati forse ha passato il segno e l’ Antitrust, per una volta, ha adottato il punto di vista dei Piccoli. Ha scelto di guardare ai problemi della concorrenza dal punto di vista delle formiche e non da quello degli elefanti. E ai primi di novembre l’ authority ha aperto un’ indagine conoscitiva sulle dinamiche grande distribuzione-fornitori e in particolare sul ruolo delle centrali di acquisto come Esd Italia, Centrale Auchan, Sicon, Csa e Centrale Italiana. Potere contrattuale L’ ipotesi di partenza è che si sia creato «un considerevole rafforzamento del potere contrattuale della grande distribuzione» nei confronti dei produttori. Si tratta solo di un’ indagine conoscitiva e potrebbe concludersi anche con un’ archiviazione ma costituisce un’ indubbia novità, che a botta calda i big del carrello, per bocca del presidente della Coop Italia Vincenzo Tassinari, hanno commentato così: «La speculazione non abita qui». A muovere gli uffici dell’ Antitrust sono state le segnalazioni, intensificatesi nell’ ultimo anno, da parte delle associazioni di settore delle piccole e medie imprese della filiera agro-alimentare. Registrare apertis verbis queste lamentele non è facile perché, a torto o a ragione, i Piccoli temono ritorsioni commerciali e spesso tirano il sasso nascondendo la mano. In sostanza rifiutano di mettere nero su bianco le loro doglianze, non favorendo in questo modo il lavoro di accertamento da parte delle autorità preposte. Di cosa si lamentano? Il meccanismo che viene descritto funziona così: si parte da un prezzo-base e immediatamente i fornitori sono chiamati dalla distribuzione ad applicare un primo sconto nella misura del 30%. Subito dopo sono chiamati a pagare una sorta di una tantum per essere inclusi stabilmente nelle liste dell’ ufficio acquisti e la terza stazione di questa via Crucis prevede che i fornitori si accollino le promozioni. Quando c’ è un 3x2 il supermercato non rischia niente, la terza confezione - quella regalata al consumatore - è a totale carico della piccola impresa produttrice. Infine si paga anche per avere una determinata esposizione, per essere visibili sugli scaffali e non essere relegati in posizioni scomode o sostanzialmente inaccessibili. I Piccoli raccontano in proposito come gli uffici legali delle grandi catene siano dei raffinatissimi costruttori di regole asimmetriche che finiscono per fissare condizioni di accesso al mercato estremamente onerose. L’ esempio di dipendenza che le piccole imprese alimentari fanno per spiegare la loro situazione è quello del rapporto tra Fiat e indotto auto. Cartello di fatto La grande distribuzione ha rapporti contrastati anche con le grandi marche, le Barilla e le Ferrero, ma chi detiene un brand internazionale gode comunque di un forte potere negoziale perché i consumatori spesso cercano proprio quel prodotto e non altri, mentre i Piccoli devono star zitti anche quando vengono pagati con enorme ritardo. L’ Antitrust dovrà appurare se tutto ciò è vero, se c’ è abuso di posizione dominante, collusione o solo dipendenza economica, insomma dovrà fare trasparenza su un conflitto sordo, dovrà dire se il modus operandi dei grandi supermercati rimane sul piano della legittima concorrenza o va al di là. A una prima analisi le centrali di acquisto paiono adottare tutte gli stessi comportamenti costituendo così un cartello di fatto. Tutte pagano a 180 giorni, tutte applicano le stesse commissioni di ingresso e gli agenti di vendita cambiando lavoro con molta frequenza trasferiscono inconsapevolmente gli stessi costumi dall’ una all’ altra centrale. Negli ultimi tempi poi le centrali hanno cominciato addirittura a vendere servizi ai fornitori, organizzando direttamente per loro le promozioni con una forma che potremmo definire di paternalismo autoritario. Spiega Maurizio Gardini, presidente di Fedagri, l’ associazione aderente a Confcooperative che organizza 3.500 imprese agricole: «È evidente come ad accentuare il carattere asimmetrico dei rapporti tra piccole imprese e distribuzione conti il fatto che mentre quest’ ultima si è andata concentrando l’ offerta resta molto frammentata e contrattualmente debole». Concorrenza e private label Camillo De Berardinis, amministratore delegato di Conad e soprattutto presidente dell’ Associazione Distribuzione Moderna e a cui aderiscono tutte le grandi catene dichiara di «attendere con interesse le conclusioni dell’ Antitrust». Sottolinea però come il settore presenti livelli di concorrenza più elevati di altri (cita carburanti e energia) e chiede di distinguere i comportamenti distorsivi dalla prassi corrente. Non è vero che tutte le catene o le centrali di acquisto, ad esempio, prolungano i pagamenti a 180 giorni e i contributi che vengono chiesti ai Piccoli per le promozioni e le commissioni di ingresso vengono considerati dei normali «investimenti sul punto vendita». Invece di spendere in pubblicità i fornitori sono chiamati a rendere possibile il loro inserimento sugli scaffali contribuendo in varie forme all’ operazione. Un altro tema che divide fortemente i fornitori dai distributori - e che fa parte dell’ indagine dell’ Antitrust - è lo sviluppo del private label, i prodotti con logo Esselunga, Coop o Carrefour che costano meno. Ma lo sconto che viene fatto al consumatore chi lo paga? È vero o no che viene trasferito in toto a monte e quindi sono i fornitori a dover rinunciare ai loro margini di guadagno? I distributori considerano il private label come «il futuro» (la Coop ha aperto addirittura un primo negozio con soli suoi prodotti) e si rammaricano caso mai che in Italia sia ancora poco sviluppato, i fornitori lo subiscono pur «di far girare le macchine e non chiudere» ma non vedono di buon occhio la rinuncia al loro marchio, perché li rende più deboli dal punto di vista contrattuale. Argomenta Gardini: «Non credo che il private label sia il futuro. Il consumatore cerca un pluralismo dell’ offerta e non serve a nessuno presentargli una sola marca». Aggiunge che «non si può tirare la corda all’ infinito, altrimenti si apre il rischio che i fornitori pur di non perdere la commessa del private label siano portati a risparmiare sugli ingredienti e alla fine cadano vittima della contraffazione». La straordinaria penetrazione in Italia del pomodoro cinese o dell’ olio turco e marocchino usati nel processo di trasformazione dei prodotti rappresenta un campanello d’ allarme che, secondo i Piccoli, la grande distribuzione non può ignorare. Troppi passaggi Le organizzazioni di rappresentanza rispetto a questi conflitti restano afone perché si tratta di contraddizioni che le attraversano. La grande distribuzione è dentro Confcommercio e quindi dentro Rete Imprese Italia, dove però ci sono anche tutti i fornitori che si riconoscono in Cna e Confartigianato. Lo schema si ritrova anche nel mondo cooperativo. Il leader di mercato italiano sono i supermercati Coop ma dentro la Lega e dentro Confcooperative è rappresentato più di un quarto della filiera agro-alimentare. Mancano dunque le sedi nelle quali discutere eppure, comunque si concluda l’ iniziativa dell’ Antitrust, gli operatori non dovrebbero delegare ad altri la risoluzione dei propri conflitti. De Berardinis sostiene che le cause dell’ inefficienza stanno nei troppi passaggi a cui deve sottostare il prodotto, il guadagno così finisce per restare agli intermediari mentre sia la distribuzione che la produzione sono costrette a fare i salti mortali per stare in piedi. Se i Piccoli invece si consorziassero qualcosa cambierebbe. «Non è vero che noi vogliamo un’ offerta frammentata per poterla condizionare - sostiene De Berardinis - siamo interessati a lavorare con fornitori più robusti per garantire qualità, tracciabilità dei prodotti e semplificazione dei contratti. E quanto alle sedi per sciogliere le contraddizioni il tavolo costituito presso l’ associazione Indicod (che si occupa degli standard internazionali, ndr.) può essere quello giusto». Intanto qualche esperimento di partnership tra grandi e piccoli c’ è. Molto citato è il caso della Conad che ha creato un marchio ad hoc, Sapori d’ Italia, che raggruppa prodotti tipici, fidelizza i fornitori e li responsabilizza sulla qualità. «Se c’ è un terreno dal quale ripartire - dice Gardini - è proprio questo. Rendere più visibile il made in Italy sugli scaffali magari accompagnandolo con una certificazione volontaria della qualità da parte dei produttori. Del resto cambiare di continuo i fornitori per tirare loro il collo a chi serve in definitiva?»
Dario Di Vico