Malcom Pagani, Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 16/11/2010, 16 novembre 2010
IO, L’AMORE E PLOTINO
Entra al Fatto, si fruga nelle tasche, impallidisce : “Soffro d’asma, me sò dimenticato il Ventolin a casa, è ’na tragedia”. Poi accende una sigaretta, sorride, aspira il tempo che è trascorso. E si rivede, Carlo Verdone, bambino con le ginocchia al vento, mentre tira sassi alla finestra di Alberto Sordi, in via delle Zoccolette, a due passi dal Tevere, dal centro del suo mondo, dall’anima evaporata dell’unico luogo che gli sia rimasto dentro: “Sarà stato il ’56, un inverno freddo, la neve sui marciapiedi. Io non sapevo neanche chi fosse Sordi, guardavo Rin Tin Tin. In famiglia però se ne parlava sempre e quando passavamo sotto casa sua, mio padre mi erudiva: “Abita qui dentro sai?”. Un giorno scendo le scale, individuo l’appartamento e comincio a lanciare pietre. Si affaccia un’ombra, non ho mai capito se fosse lui o la sorella: erano uguali. Un vocione: “Non rompere i coglioni ragazzino, vattene via, Sordi dorme e il sonno è sacro, non te l’hanno insegnato?”. E ride. L’ha fatto spesso duellando con la malinconia, anche oggi, dopo 22 film e una carriera iniziata all’alba dei ’70 con Super 8 dai titoli tarkovskijani: “Elegia notturna”, “Poesia solare”, “Allegoria di primavera”: prima di virare su altri continenti, gli valsero l’ingresso al Centro Sperimentale di cinematografia. Il ragazzo del 1950 compie sessant’anni oggi. “A 40 pensai: entro negli anta, è finita. A 50 l’evento mi fece ancora più impressione, adesso con l’età convivo serenamente . Però succede una cosa strana.
Dica dica.
Mi fermano per strada, elegiaci: “Ma lei ha sessant’anni? Siamo coetanei (fa una smorfia di disgusto ndr).
Non è contento?
Mbè no, cercano complicità tutti quelli che dimostrano almeno vent’anni più di me. Uno, l’altro giorno tutto eccitato: “Noi sessantenni semo i mejo”. Lo guardo e rabbrividisco: “Ma questo sembra mi padre”. Adesso io non voglio di’ che me li porto bene. Sarà il movimento, l’energia, il tipo di vita. Non per nasconde che hai sessant’anni, mica racconto fregnacce. Però non me ne capacito: credo di avere ancora qualcosa da dire nel futuro.
Rimpianti?
Mannò, è che quando sei giovane gli anni fuggono velocemente, prima i giorni non finivano mai. Adesso che la mia vita è molto disciplinata, la sera arriva subito. Il tempo va usato bene, ma non pagherei nessuna cifra per tornare indietro perché ho potuto conoscere Roma in bianco e nero: a ’sta città non je vojamo più bene.
Erano gli anni ‘50. Poi?
Arrivano i ‘60. Ma sono diversi, a colori. Confusi, mossi, pieni di adrenalina, musica. Per me i favolosi sono le copertine dei dischi. Gli lp, St. John Pepper, Carnaby street.
E un po’ di tempo dopo approda in una una cantina di via Cavour.
(Sorriso). Era il 1971. Avevo una lambretta 125, andavo in giro bardato con il passamontagna, eravamo contenti con poco: il nostro covo era la pizzeria vicino alla Chiesa nuova. Stavamo in una gelida cantina due piani sotto terra. Uno spazio enorme, mio fratello Luca mise insieme una compagnia e mi propose di fare un testo intellettualissimo, Pittura su legno di Bergman.
Però.
Per riscaldare l’ambiente comprammo sei bombole a gas, di una pericolosità incosciente: se qualcuno si fosse dimenticato de chiude ‘na bombola, saltava per aria tutto il palazzo. Bronchiti, tossi, malattie. C’avevamo il fumo sulla testa. Una sera mancavano Claudio, Daniela, Glauco: tutti con l’influenza. Mi prese ’na botta di narcisismo, di follia forse: ero molto timido. E dico a mio fratello: le faccio io le parti scoperte. C’era il critico di Momento sera, dopo 4 giorni fece uscire la sua recensione: “Svetta un Carlo Verdone di cui sentiremo parlare da qui ai prossimi anni”. Facevo ancora l’università.
Trionfo?
Si, anche se una sera beccai un chiodo nel tallone , rischiando il tetano. Feci sul palco saltelli da giullare, un dolore cane. (Qui Verdone si alza e salta davvero). Anche il pubblico si passò la voce ‘ci si ammala, non andate là che fa troppo freddo’.
Dove sono oggi i compagni dell’inizio?
Uno lavora all’Inps. Un altro all’Enel, qualcuno è in pensione. Però sono tutti vivi.
Il teatro allunga la vita.
Mia madre era una donna fantastica, capace di slanci ottocenteschi. Ci faceva un teatrino dentro casa, cuciva i vestiti dei burattini insieme alla sua amica Vera, si divertiva con i fondali dipinti da mio zio. E poi io andavo con lei nei foyer. La capacità di passare da un ruolo all’altro nasce in quegli anni. Fondamentale fu l’esperienza che feci come burattinaio con la mitica Maria Signorelli: davo le voci ai vari pupazzi. Nel ‘73 ebbi voglia di perfezionarmi, e chiesi a mio padre se mi faceva andare a Praga dove c’era la più grande scuola europea di marionette.
Nel ‘73 Praga voleva dire Mosca.
E ’nfatti. Dopo Dubcek e Jan Palach, non se poteva entrà, era un casino. Papà non era introdotto in nessun partito, ma amava l’arte, per lui la cultura era un ponte e non un filo spinato. Adorava Plicka e Majakovskji, a Est lo sapevano. Andai all’accademia. Il viaggio d’andata fu un racconto di Kafka.
Partiamo.
Quindici persone. Tutti diplomatici cecoslovacchi, io unico turista. Rischiai di non tornare. L’albergo era in piazza San Venceslao. Fuori dalle finestre, i preparativi per la visita di Breznev sembravano l’unica cosa che contasse. Foto del presidente ceco Sloboda e di quello russo per chilometri. E poi bandiere. Una russa, una ceca, a perdita d’occhio.
E lei, in pieno realismo sovietico, che fece?
Un pezzo di neorealismo italiano. Pioveva a dirotto, mancava un’ora alla partenza. In un lampo, me viè l’idea.
Quale idea?
Fregarmi una bandierina comunista. Apro le finestre, mi sporgo, la afferro e la ripiego ordinatamente in valigia. Neanche un minuto e bussano.
Lei apre?
Giro la maniglia e mi trovo di fronte un orco di due metri. Con il Borsalino in testa, una giacca verde militare. Tipica spia sovietica, mi indica la borsa e sillaba metallico: “Open, open”. Tiro la zip, esce il drappo rosso e lui cambia espressione. Io capisco che butta male e mi giustifico: “Ah questo? Solo un piccolo souvenir, niente di grave, mi scusi tanto”.
Reazione?
All’improvviso, inizia a parlare italiano: “Lei adesso rimettere a posto questa, poi venire con noi”. Me so’ cagato sotto. Giuro. Gli faccio presente che sto perdendo l’aereo e lui neanche mi guarda in faccia. Alla fine mi rivolge la parola: “Non fare mai più atto di grande maleducazione”.
Salvo?
A quel punto è uscito l’attore: “Grazie, io non ho tolto la bandiera per odio. È una cosa bella” e quello me fa segno: togliti dai coglioni. In aereo c’eravamo io, la figlia di un diplomatico e un altro. Un Caravelle per tre persone: una paura, terrore puro.
Lei ha paura di volare?
Macché. Serpax 15, se conosci il Serpax non lo molli più: gli fa un mazzo così all’aereo, ti dà anche un po’ di buonumore: la migliore benzodiazepina che abbia mai conosciuto.
Maledetto il giorno che
t’ho incontrato insegna.
Quel film è stato un po’ terapeutico. C’era molto di me: l’amore per la musica rock, per Jimi Hendrix, per l’Inghilterra, la psicanalisi, l’ipocondria. Molti tra il pubblico si ritrovarono: non sapete quanta gente parte con i sacchi delle medicine.
Anche lei?
Quando arrivai in Inghilterra avevo portato la Magnesia San pellegrino. Come entro a Londra, alla dogana mi fanno aprire la valigia. C’era una polvere bianca in un sacchetto, l’agente me guarda e dice: “What is this?“. Io l’inglese lo parlavo poco, non sapevo come dirgli che mi serviva per andare in bagno.
No cocaine, laxative power.
Eh si. Me la sono messa sulla lingua per fargli vedere che era effervescente. E facevo il gesto sulla pancia per dire “funzioni corporali”. Attorno m’insultavano tutti: “ma che ti porti sempre ’ste medicine dietro...”
Poi però ha fatto un altro film sulla psicanalisi.
Sì perché successe una cosa. Un giorno vado dal professor Antonelli, un neurologo, un luminare, un santo . A via della Camilluccia vedo un gruppo di persone disperate che piangono appoggiate al muro. “È morto, è morto, come cazzo facciamo adesso?”. Mi avvicino e chiedo rispettosamente: “Ma è morto chi?”. Un signore, molto depresso, mi si avvicina: “Ma come chi? Il professore, la nostra salvezza”. Quella scena mi rimase impressa e decisi che sarebbe stato l’abbrivio di un film sulla psicanalisi collettiva. E così è nato “Ma che colpa abbiamo noi”.
Perché andava dal professore?
Io ho un problema, non dormo. Antonelli era riuscito a farmi arrivare a sei ore di sonno senza somministrarmi gli ipnotici, con un cocktail di ansiolitici vari. Senza sonnifero, purtroppo, non vado oltre le quattro.
Adesso dorme?
Con difficoltà ma è un tratto distintivo della famiglia. Mio zio dormiva due ore e mezza, però è morto a 93 anni. Voglio rassicurare gli insonni.
L’ansia la accompagna da sempre. Al primo spettacolo in tv, lei non voleva andare. Si
barricò in camera.
Mi spronò mia madre: “Non fare il frignone”, e fece bene. Fosse stato per me, avrei preso un ansiolin, ma un attore imbottito di tranquillanti non può funzionare.
Cos’è la noia?
Ehhhh? Noia? È il massimo del riposo e ha un periodo preciso, l’estate.
Racconti.
Se non mi annoio non mi riposo e non mi piacciono le vacanze in cui timbri il cartellino e tutte le sere hai da fà ‘na cosa. Così mi ritiro in Sabina, leggo, ma frequento con moderazione qualche amico. E poi la noia ha sempre un confine in cui si trasforma in qualcosa di produttivo. È pericolosa solo nel periodo lavorativo. Se ti annoi sul set, sei arido e allarmarsi è lecito.
Suo padre era tranquillo?
Mario è stato il massimo che un figlio possa desiderare. Rigoroso, disciplinato, severo. Quando scriveva non si poteva muovere dito. Però papà era anche capace di grandi slanci. Per scoprire il suo lato coatto ci volle lo stadio.
Partita? Siena-Livorno, iniziò con un applauso sportivo e finì prendendo a ombrellate il vicino. Lo dovettero fermà in dieci, si era tolto pure il trench.
Lo ebbe come professore all’Università.
Storia del cinema. La sera prima lo pregai: “Interrogami su Fellini”. E lui: “Non ti preoccupare Carlè, tranquillo”.
La mattina dopo?
Mi siedo e dietro di me sento sussurrare “È parente, è parente. È uno schifo”. Papà s’irrigidisce, capta qualcosa, sembra un altro, mi da del lei, ostenta distacco: “Mi parli di Dreyer e di Pastb”. Io gli feci dei gesti, mimai il nome di Federico (Verdone muove naso e bocca, torna ad allora) ma non succede niente. Poco dopo mi caccia: “Si ripresenti quando sarà più preparato”.
Secondo tempo?
Torno a casa e lo incontro: “Cazzo papà, mi hai fatto fare un figura di merda”. E lui, serafico: “Non volevo si pensasse a qualche favoritismo”. Fece una pausa: “E poi, Carlo, francamente Pasbt...”.
E con i suoi figli Paolo e Giulia?
All’inizio degli anni Novanta mi sono fermato. Ho capito che stavo esagerando con il lavoro, senza dedicare nessuna attenzione alla loro crescita. E ho detto basta: ’A Ca’, devi pensà un po’ a loro’. Fino ad allora l’aveva fatto solo Gianna, la loro madre, donna meravigliosa.
Atti concreti verso la redenzione?
Viaggi. Dal ’98 in poi, abbiamo visto il mondo. Gianna me l’aveva detto: “Lo devi fare da solo. Tu, i ragazzi e nessun altro. Soltanto così sublimerete un rapporto che non c’è”. Io annuivo e intanto tremavo: “Ma da dove inizio?”. Comunque partiamo e puntualmente, Giulia a Los Angeles, si ammala. “Mo sò cazzi”, rifletto. Mi rimbocco le maniche e la curo. Al ritorno ero fiero, felice.
Oggi come va?
Sono indipendenti, viaggiano, leggono, ci insegniamo reciprocamente delle cose.
Lei cosa legge?
Ho due libri sul comodino, sono fissi e dopo anni, stanno dando finalmente i loro sudati frutti .
Quali?
L’opera omnia di Seneca. Le lettere a Lucilio so’ come ’na compressa de Serpax. E’ un grande ansiolitico, Seneca. A fianco ci sono le massime di Epitteto che non scriveva niente, era bruttarello, ma era un genio. E Plotino.
Plotino?
Dopo “Io loro e Lara” mi trattano come un teologo, un filosofo. Vengo invitato continuamente. Ravasi, Tonini, padre Viganò e i seminaristi di Seveso che sò teribbili, hanno una preparazione mostruosa, mi hanno pure posto qualche critica ragionata. In generale, te fanno un mazzo così.
Si arrabbia mai Verdone?
Una volta mi arrabbiavo moltissimo, adesso la collera mi scivola via dopo poche ore, tutt’al più le idiozie mi contrariano e al posto della rabbia, avverto indignazione. Quella mi aumenta per tante cose che vedo e non solo in Italia. Vi ricordate Compagni di scuola?
Sì, lei Ghini e la Giorgi e molti altri.
Il primo politico cocainomane in un film l’ho messo io. L’occhio lungo l’ho sempre avuto. Ghini portava una cravatta rossa, magari diceva parole di sinistra, aveva il vizio di andare in bagno in continuazione e tirava su con il naso.
L’Italia di oggi?
Cosa vi devo dire? (E qui, involontariamente, intona la voce di una delle sue tante maschere in tonaca) siamo finiti dentro il Satyricon di Petronio, ma non è un divertimento lieve, poetico, ironico. Leggiamo pagine scritte male, un po’ miserabili e assistiamo a un deragliamento generale dell’etica.
È moralista?
Lo sto diventando. In molti dicono : “Eh, ma la vita privata è intoccabile”. E’ una cazzata. E sia a destra che a sinistra, esempi deteriori non mancano. La volete sapè una cosa su destra e sinistra?
Siamo qui.
Parlà di destra e sinistra è una rottura de’ coglioni. Me viè una specie di nausea. Vedo tra le parti uno strano comun denominatore che mi ripugna. Se quelli che dovrebbero recitare da esempi, evidenziano solo squallore, io mi preoccupo.
Si stava meglio con la Dc?
Al riparo di quei palazzoni grigi, magari facevano cose simili, ma ne sapevamo poco. E comunque, quell’universo non esiste più. Allora i fotografi come Pizzi inseguivano le presunte simpatie di Aldo Moro per Rossana Fratello. Ormai il paparazzo può essere chiunque. Basta un cellulare, una posa equivoca sul divano e sei fregato. Ha ragione D’Agostino, siamo precipitati in un fotto-romanzo.
Cambiamo scenario, l’amore?
(Verdone rimane in silenzio per quasi un minuto, poi concede: ‘Ce sto a pensà troppo?”, infine risponde) Il cuore che batte fortissimo ce l’hai quando incontri le prime fidanzate, è una meravigliosa follia. L’età acerba ti permette di fantasticare, essere un po’ mitomane, esagerare. Mi sono innamorato tre o quattro volte, non di più. Anche dopo essermi separato da mia moglie, ho avuto tanti incontri. Nessuno davvero rilevante.
Aneddoti?
Impazzi in gioventù per Livia Azzariti, ma dopo la terza uscita insieme, le misi delicatamente un braccio intorno al collo e lei me lo tolse con decisione. Capii senza bisogno di altre spiegazioni.
Porta ancora la fede.
È quella di mio padre, quando è mancato, con il nodo alla gola, gliel’ho sfilata. Da Rossana a Mario c’era scritto. Ai miei ero devoto e un anello di congiunzione tra me e loro esiste. Le persone se ne vanno fino a un certo punto. Sono molto curioso di quello che avverrà quando sarà il momento, non impaurito. Mi aspetta un film eccezionale, dopo la vita.
Non ci ha parlato di suo fratello Luca.
Anni fa facemmo un film insieme. Luca ha una dignità dieci volte superiore alla mia. E’ colto, serio, sempre di buonumore. Si sbatte per una passione non remunerata. Lo ammiro. L’altra sera c’era il suo documentario sul Futurismo al Festival di Roma.
Com’era?
Non l’ho visto. C’era Bruce Springsteen in città, gli ho chiesto comprensione e l’ho ottenuta.
E con il boss?
Abbiamo parlato di Nebraska, mi ha chiesto quale fosse la mia canzone preferita e io pronto: “Atlantic City”. Lui sorride e mi da il cinque.
Tutto bene?
Macchè. Quel giorno mi ero massacrato una mano per sturà un tombino del terrazzo. L’impatto con la mano di Springsteen è stato inumano, volevo urlà, ho visto le stelle. Vedete com’è con me? C’è sempre un aspetto ridicolo che me devasta il quadro generale.