Domenico Montalto, Avvenire 16/11/2010, 16 novembre 2010
TESORI D’ARTE SE SAPESSIMO FARLI FRUTTARE...
Da quanti anni si dice che i beni culturali dovrebbero, e potrebbero, essere la prima risorsa economica italiana, il motore del nostro sviluppo, la carta vincente per il futuro delle giovani generazioni? Da quanti anni si sa che per l’azienda Italia, città d’arte, monumenti archeologici, musei, oasi storiche, ambientali e naturalistiche costituiscono un capitale sociale – teorico – dal valore impossibile da quantificare, con una teorica rendita – diretta e indotta – da numeri sbalorditivi? Il tesoro lo si conosce: col termine «capitale» designiamo un patrimonio culturale che è, per universale ammissione, il più ricco del mondo: ben 45 siti Unesco, oltre 3.400 musei di cui mille ecclesiastici, 2mila tra aree e parchi archeologici. Ma ciò che non si conosce è come farlo fruttare, questo tesoro. Se formidabile è il capitale, la rendita è infatti ben poca cosa, e in questa chiave il crollo della Casa dei gladiatori a Pompei non è solo la peggior tegola che poteva cadere sull’immagine internazionale del Bel Baese, ma è soprattutto il sintomo di una bancarotta gestionale, prima che finanziaria. Che ci sia un problema di sistema lo ha ammesso, dal suo ufficio al Collegio Romano, anche Mario Resca, consigliere del ministro Bondi per le politiche museali, che pur era stato ingaggiato – in virtù delle capacità acquisite come top manager di Mc Donald’s Italia – per portare finalmente il verbo del marketing, invertire la cronica tendenza e dare un po’ di ossigeno all’asfissìa dei conti. In un’intervista pubblicata sulla newsletter del Mibac si è chiesto giustamente: «Chi sono i nostri competitor? Dove va la gente quando ha un po’ di tempo libero? Abbiamo musei dove ci sono più dipendenti che visitatori. A parte un 3% della popolazione che va comunque al museo, il 97% della gente ha come alternativa internet, la televisione, il cinema, i centri commerciali ».
In attesa di una risposta, restano i dati comparati del turismo culturale che, già ancor prima della crisi e della recessione, risultavano impietosi e ci vedevano soccombere rispetto agli altri Paesi turistici diretti competitori. Nel 2007 i consuntivi relativi all’affluenza nei musei e alla rispettiva bigliettazione hanno registrato 34 milioni 443mila visitatori nei musei, monumenti e aree archeologiche nazionali: in Francia sono stati quasi 52 milioni, mentre in Germania sono arrivati a 75 milioni 341 mila. Risultati ancor peggiori arrivano però dal fronte degli introiti, molto al di sotto dei numeri tedeschi e francesi. Gli scavi di Pompei sono stati il sito più visitato in Italia, con 2 milioni 545mila entrate, a seguire gli Uffizi di Firenze con 1 milione 616mila visitatori. Poco rispetto agli 8 milioni 222mila ingressi del Louvre e agli oltre 5 milioni di Versailles. Deludente è pure la classifica dei musei più visitati al mondo, dove il primo museo italiano è quello degli Uffizi di Firenze piazzato solo al 21° posto. Fra i primi cinque musei più visitati del pianeta due sono francesi (Louvre e Beaubourg), due inglesi (British e Tate Modern), uno americano (Metropolitan). E anche il monitoraggio dei trenta siti italiani più visitati fornisce una diagnosi non confortante: fra il 2007 e il 2008 le visite a Pompei sono calate del 12,8%, e addirittura precipitate del 23,4% nel Circuito museale Vanvitelliano e Reggia di Caserta. C’è un interessante indice «scientifico» col quale si fotografa l’insufficienza gestionale del patrimonio italiano: è il ’Rac’, indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco. Il più recente studio sui ’Rac’ nello scenario mondiale risale al 2008, al Rapporto su arte, turismo culturale e indotto economico, stilato per Confcultura e Confindustria da PriceWaterhouseCoopers, specializzata nella lettura dei bilanci. Ebbene, il Rac mostra come «gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a sette volte quello italiano (160 milioni di euro contro i nostri 21 milioni) ». In particolare, «... il settore culturale e creativo in Italia raggiunge solo il 2,6% del Pil nazionale (pari a circa 40 miliardi di euro), rispetto al 3,8% del Regno Unito (circa 73 miliardi di Euro) e 3,4% della Francia (circa 64 miliardi di Euro). È evidente il gap competitivo e la scarsa capacità di sviluppare il potenziale del nostro Paese». Ancora, si evince dal Rapporto, che il Pil del turismo culturale sul totale del Pil dell’economia turistica italiana pesa il 33%, con un valore pari a 54 miliardi di euro. Questo valore è inferiore rispetto al 39% della Spagna (pari a 79 miliardi di euro)».
Insomma il punto di criticità più dolente del sistema culturale Italia sta proprio nella scarsa redditività e competitività. Né le prospettive possono migliorare se è vero che nel 2008 l’Italia ha investito in cultura lo 0,28% del Pil, mentre negli altri Paesi europei s’investe mediamente l’1,4-1,5% del Pil, ben quattro volte la nostra cifra, che dovrebbe invece risultare al primo posto nel mondo viste le eredità culturali di cui disponiamo. Ma non ci sono solo i tagli «lineari» ai fondi per la Cultura, lo spettacolo, la scuola e la ricerca: ci sono anche quelli a effetto differito sui Comuni, i quali – venendo meno i trasferimenti – «tagliano» soprattutto in questo settore. Con simili strategie, e senza una visione integrata e di filiera del problema, c’è davvero il rischio di mettere una pietra tombale sul nostro futuro.