Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 16 Martedì calendario

TESORI D’ARTE SE SAPESSIMO FARLI FRUTTARE...

Da quanti anni si dice che i beni cultu­rali dovrebbero, e potrebbero, essere la prima risorsa economica italiana, il motore del nostro sviluppo, la carta vincente per il futuro delle giovani generazioni? Da quanti anni si sa che per l’azienda Italia, città d’arte, monumenti archeologici, musei, oasi storiche, ambientali e naturalistiche costitui­scono un capitale sociale – teorico – dal valo­re impossibile da quantificare, con una teori­ca rendita – diretta e indotta – da numeri sba­lorditivi? Il tesoro lo si conosce: col termine «capitale» designiamo un patrimonio cultu­rale che è, per universale ammissione, il più ricco del mondo: ben 45 siti Unesco, oltre 3.400 musei di cui mille ecclesiastici, 2mila tra aree e parchi archeologici. Ma ciò che non si conosce è come farlo fruttare, questo teso­ro. Se formidabile è il capitale, la rendita è in­fatti ben poca cosa, e in questa chiave il crol­lo della Casa dei gladiatori a Pompei non è so­lo la peggior tegola che poteva cadere sul­l’immagine internazionale del Bel Baese, ma è soprattutto il sintomo di una bancarotta ge­stionale, prima che finanziaria. Che ci sia un problema di sistema lo ha ammesso, dal suo ufficio al Collegio Romano, anche Mario Re­sca, consigliere del ministro Bondi per le po­litiche museali, che pur era stato ingaggiato – in virtù delle capacità acquisite come top ma­nager di Mc Donald’s Italia – per portare fi­nalmente il verbo del marketing, invertire la cronica tendenza e dare un po’ di ossigeno al­l’asfissìa dei conti. In un’intervista pubblica­ta sulla newsletter del Mibac si è chiesto giu­stamente: «Chi sono i nostri competitor? Do­ve va la gente quando ha un po’ di tempo li­bero? Abbiamo musei dove ci sono più di­pendenti che visi­tatori. A parte un 3% della popola­zione che va co­munque al museo, il 97% della gente ha come alternati­va internet, la tele­visione, il cinema, i centri commercia­li ».
In attesa di una ri­sposta, restano i dati comparati del turismo culturale che, già ancor pri­ma della crisi e del­la recessione, risul­tavano impietosi e ci vedevano soccombere rispetto agli altri Pae­si turistici diretti competitori. Nel 2007 i con­suntivi relativi all’affluenza nei musei e alla rispettiva bigliettazione hanno registrato 34 milioni 443mila visitatori nei musei, monu­menti e aree archeologiche nazionali: in Fran­cia sono stati quasi 52 milioni, mentre in Ger­mania sono arrivati a 75 milioni 341 mila. Ri­sultati ancor peggiori arrivano però dal fron­te degli introiti, molto al di sotto dei numeri tedeschi e francesi. Gli scavi di Pompei sono stati il sito più visitato in Italia, con 2 milioni 545mila entrate, a seguire gli Uffizi di Firenze con 1 milione 616mila visitatori. Poco rispet­to agli 8 milioni 222mila ingressi del Louvre e agli oltre 5 milioni di Versailles. Deludente è pure la classifica dei musei più visitati al mon­do, dove il primo museo italiano è quello de­gli Uffizi di Firenze piazzato solo al 21° posto. Fra i primi cinque musei più visitati del pia­neta due sono francesi (Louvre e Beaubourg), due inglesi (British e Tate Modern), uno ame­ricano (Metropolitan). E anche il monitorag­gio dei trenta siti italiani più visitati fornisce una diagnosi non confortante: fra il 2007 e il 2008 le visite a Pompei sono calate del 12,8%, e addirittura precipitate del 23,4% nel Circui­to museale Vanvitelliano e Reggia di Caserta. C’è un interessante indice «scientifico» col quale si fotografa l’insufficienza gestionale del patrimonio italiano: è il ’Rac’, indice che a­nalizza il ritorno economico degli asset cul­turali sui siti Unesco. Il più recente studio sui ’Rac’ nello scenario mondiale risale al 2008, al Rapporto su arte, turismo culturale e indot­to economico, stilato per Confcultura e Con­findustria da PriceWaterhouseCoopers, spe­cializzata nella lettura dei bilanci. Ebbene, il Rac mostra come «gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a sette volte quello italiano (160 milioni di euro contro i nostri 21 milio­ni) ». In particolare, «... il settore culturale e creativo in Italia raggiunge solo il 2,6% del Pil nazionale (pari a circa 40 miliardi di euro), rispetto al 3,8% del Regno Unito (circa 73 mi­liardi di Euro) e 3,4% della Francia (circa 64 mi­liardi di Euro). È evidente il gap competitivo e la scarsa capacità di sviluppare il potenzia­le del nostro Paese». Ancora, si evince dal Rap­porto, che il Pil del turismo culturale sul tota­le del Pil dell’economia turistica italiana pe­sa il 33%, con un valore pari a 54 miliardi di euro. Questo valore è inferiore rispetto al 39% della Spagna (pari a 79 miliardi di euro)».
Insomma il punto di criticità più dolente del sistema culturale Italia sta proprio nella scar­sa redditività e competitività. Né le prospet­tive possono migliorare se è vero che nel 2008 l’Italia ha investito in cultura lo 0,28% del Pil, mentre negli altri Paesi europei s’investe me­diamente l’1,4-1,5% del Pil, ben quattro vol­te la nostra cifra, che dovrebbe invece risul­tare al primo posto nel mondo viste le eredità culturali di cui disponiamo. Ma non ci sono solo i tagli «lineari» ai fondi per la Cultura, lo spettacolo, la scuola e la ricerca: ci sono an­che quelli a effetto differito sui Comuni, i qua­li – venendo meno i trasferimenti – «tagliano» soprattutto in questo settore. Con simili stra­tegie, e senza una visione integrata e di filie­ra del problema, c’è davvero il rischio di met­tere una pietra tombale sul nostro futuro.