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 2010  novembre 13 Sabato calendario

LE CAMPAGNE SACRE ALL’ITALIA TRA DISCARICHE E DISUMANITA’

Hanno sepolto perfino un camion con rimorchio, nelle discariche abusive sparse per queste campagne «sacre all’ Italia». Un tir tutto intero. Motrice, cabina, cassone, traino, assali, pneumatici. Tutto. Magari insieme, chissà, col cadavere del camionista. Le cui ossa si sono forse mischiate con quelle di cui parla Roberto Saviano, che racconta come i cimiteri per liberarsi periodicamente delle salme più vecchie «che i becchini più giovani chiamano "gli arcimorti"» diano una mazzetta a questi becchini «per farli scavare, e poi buttano tutto sui camion. Terra, bare macerate e ossa. Trisavoli, bisnonni, avi di chissà quali città si ammonticchiavano nelle campagne casertane» al punto che «ormai la gente quando passava vicino si faceva il segno della croce, come fosse un cimitero». E se qui son capaci di seppellire un camion, che problema ci sarà mai a seppellire un pezzo di storia? Queste campagne intorno al Volturno, dove si andò a compiere la saldatura tra il Nord e il Sud dell’ Italia, sono irriconoscibili rispetto a quelle che videro la celeberrima stretta di mano, un secolo e mezzo fa, tra Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi. Quando il condottiero si fece incontro al sovrano pronunciando le parole entrate nella leggenda, «Salute al re d’ Italia!», non dovevano essere poi così diverse da quelle cantate nei secoli da tanti scrittori. Da Plinio il Vecchio («da questo punto hanno inizio i colli pieni di viti e l’ ubriachezza nobilitata da un succo famoso nel mondo intero e (...) comincia qui l’ estrema lotta di Libero Padre con Cerere», cioè tra Bacco e la dea della fertilità) a Goethe («Si aprì innanzi ai nostri occhi una bella pianura») fino a Charles Dickens, ammaliato da «una strada piana che si allunga in mezzo a viti tenuti a tralci che paiono festoni tirate da un albero all’ altro». Doveva essere stupenda, questa campagna poi stuprata da decenni di assalti cementisti, sciatteria amministrativa, smottamenti morali, prepotenze camorristiche. Stupenda. Oggi nel Volturno, che porta al mare tra le altre le acque reflue di Benevento (dove il depuratore è in programma dal 1977: campa cavallo...) o nei canali dei Regi Lagni costruiti dai Borboni a partire dal ’ 700 per drenare le acque nell’ agro casertano, sversano decine di comuni. E al mare marroncino arriva di tutto: il percolato delle discariche di immondizia, i rifiuti degli allevamenti bufalini, le carcasse dei bufali maschi neonati. Uccisi perché non produrranno latte e anzi per crescere ne consumano. Qualche esemplare destinato alla riproduzione si salva. Gli altri buttati nei canali. O ammazzati e sepolti. A marzo la Asl ha trovato nella campagna di Castel Volturno una fossa con 57 bufalotti. Seppelliti in una cava di sabbia in disuso. Sono state una peste, quelle cave. Scava scava («nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia», si legge in Gomorra) il cosidetto «cuneo salino», complice l’ erosione costiera provocata dalla cementificazione selvaggia, come da tempo denuncia inascoltata Italia Nostra, è penetrato in profondità nel territorio. Anche per quattro o cinque chilometri. Compromettendo l’ ecosistema una volta straordinario. «Presto», profetizza l’ ex sindaco di Castel Volturno Mario Luise, «non si potrà più coltivare». Discariche abusive, montagne di ecoballe e pattume dappertutto: fra le case, lungo le strade, nei campi. Nella Provincia di Caserta la raccolta differenziata non si sa manco cosa sia. Nel 2007 era al 7,1%, contro una media regionale, infima, del 13,5% e una media nazionale, già modesta, del 27,5%. Sette per cento: un settimo scarso rispetto al 51,4% del Veneto. Quel po’ di agricoltura che resiste si regge sul lavoro nero degli immigrati. Li vedi alle 5 di mattina alle rotonde, assonnati e infreddoliti d’ autunno, che aspettano i Califfi, così chiamano i caporali, sperando di svoltare una giornata. A tirar su un muro di mattoni, a scaricare ponteggi, a raccogliere cipolle. La paga è da fame: 15 o 20 euro per dieci, dodici ore di lavoro, cambia a seconda del colore della pelle. Più ce l’ hai scura, più fatichi. Tutti i lavori pesanti spettano agli africani della Nigeria e del Ghana che a Castel Volturno sono le comunità più numerose. Quanti sono? Quelli regolari duemila. Ma i clandestini il triplo. Seimila o molti di più. Ammucchiati soprattutto in città fantasma come la «Destra Volturno». Una distesa di case abusive presidiata dai cani randagi. Qualche donna, come Amina, ha una tessera con scritto «Permesso di soggiorno elettronico». Per averla ha pagato seimila euro a un italiano che l’ ha registrata come badante per consentirle di accedere all’ ultima sanatoria. Seimila euro: quattro anni di stipendio, in Nigeria. Ma quella carta salva dai carabinieri, dal foglio di via, dal rischio di passare sei mesi in un Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Anche se poi nessuno degli africani clandestini che abitano sulla costa Domizia va mai via davvero. I soldi per le espulsioni non ci sono. I pochi che finiscono nei Cie, passati i sei mesi escono con un altro foglio di via e la giostra continua. All’ infinito. Anzi, siccome mancano pure i denari per i «rimpatri» volontari previsti dalla legge, chi si presenta alla polizia confessando «Buongiorno, sono un clandestino. Vorrei tornare a casa mia» non ha alcuna chance di partire. Volenti o nolenti, sono tutti costretti a restare in questo girone dantesco chiamato Castel Volturno. Prigionieri di una cittadina che a sua volta, come sempre accade quando c’ è un ghetto, si sente viceversa prigioniera loro. «Faremo la fine degli indiani d’ America: moriremo sotto il peso degli immigrati», ha ringhiato rabbioso un mese fa il sindaco Antonio Scalzone, alla guida di una giunta di centrodestra, furente perché gli era stata vietata una manifestazione contro gli immigrati. Al suo fianco Roberto Fiore, di Forza Nuova, noto per aver detto che «Hitler è stato uno statista che ha commesso dei crimini», andava oltre. E spiegava che i problemi di Castel Volturno sono dovuti alla morsa di 3 «C»: comunisti, clandestini, camorra. Il sindaco condivide: «I comunisti proteggono i clandestini che a loro volta sono manovrati dalla camorra!». Anzi, volendo, di «C» se ne potrebbe aggiungere una quarta: quella dei comboniani. Che in zona hanno messo su una «parrocchia volante» (così la chiamano) senza chiesa e senza territorio per stare accanto «alla sofferenza degli immigrati». Anche per quello, spiega Scalzone invocando tolleranza zero, si è messo di traverso alla decisione di piazzare una piccola scultura simboleggiante la fratellanza in ricordo della strage del 18 settembre del 2008, quando 6 extracomunitari furono assassinati da un commando di camorristi su ordine del boss Giuseppe Setola, esponente dell’ ala stragista delle cosche di Casal di Principe: «Non è del tutto chiaro se quei sei fossero proprio innocenti...». Che quel massacro fosse stato feroce, certamente venato di razzismo e seguito un paio di mesi dopo da uno straordinario concerto di solidarietà con la comunità degli immigrati e con Roberto Saviano, concerto al termine del quale morì d’ infarto, in questa specie di Soweto casertana, la grande Miriam Makeba, non lo tocca: «Ripeto: non è del tutto chiaro se quei sei...». Imbarazzi? Zero. Non è uomo, Scalzone, da tirarsi indietro davanti alle polemiche. Basti dire che pochi giorni fa, nel pieno delle proteste per la spazzatura che allagava le strade di Napoli, si è offerto di prendersela lui, se solo gli avessero dato un pò di milioni di euro, una certa quantità di monnezza. «Non è del tutto chiaro se quei sei fossero proprio innocenti...». Che l’ immigrazione incontrollata sia un problema reale, qui, non si discute. Addirittura don Antonio Palazzo, un prete che si era speso per dare una mano agli extracomunitari inventandosi i tesserini Caritas con nome, foto e data perché i clandestini in caso di sanatorie potessero dimostrare di essere in Italia da tempo, arrivò a implorare il governo: «I nuovi clandestini vanno buttati fuori». Un giorno portò chi scrive lungo la Domiziana: «Guardate: 500 prostitute in pochi chilometri. Una ogni 50 metri. E sono le 11 di mattina. Figuratevi la sera. Non si può andare avanti così. D’ estate vengono mandate a battere nude. Ma proprio nude. Senza un filo d’ erba addosso». Né troppo diversamente la pensava, un paio di anni fa, il predecessore del sindaco attuale, il magistrato Francesco Nuzzo. Il quale, eletto col centro-sinistra, si sfogò: «uno Stato non è uno Stato se non protegge i suoi cittadini, se non è in grado d’ estirpare il cancro della camorra e controllare l’ immigrazione». Sfogo seguito da un sospiro: senza la camorra e senza gli immigrati, «Castel Volturno potrebbe essere un luogo stupendo. Potrebbe diventare la Malibù d’ Italia». Ma è davvero così? Difficile da sostenere. Tanto più dopo aver letto due interrogazioni parlamentari contrapposte. Una della destra del 2005 contro il «sinistrorso» Nuzzo, una della sinistra nel 2010 contro il «destrorso» Scalzone. Interrogazioni speculari. Quasi identiche. Tese a dimostrare i rapporti a dir poco ambigui tra l’ uno e l’ altro con gli ambienti più discussi del sottobosco della politica e degli affari se non più vicini ai casalesi. Con un intreccio di cugini, suoceri, cognati, fratelli da gelare il sangue. È dal 1970 che Castel Volturno aspetta un piano regolatore. O lo boccia l’ amministrazione che viene dopo quella che l’ ha messo a punto, o lo cassa la Provincia, il Comune viene sciolto per infiltrazioni mafiose, arriva il commissario, va via il commissario... Così il litorale si è riempito di case. Case dappertutto, case orrende, case di ogni dimensione e forma. Quelle dei camorristi si riconoscono dallo scalone tondo, i balconi baroccheggianti, le finiture stile impero... In quelle case prima sono stati ospitati gli sfollati del terremoto del 1980. Poi quelli cacciati nel 1983 dal bradisismo di Pozzuoli, che risalirono la costa in un caos infernale facendosi smistare spesso non dai vigili ma da personaggi come «Gennaro ’ o gommisto». Infine sono arrivati i neri. Castel Volturno è il loro dormitorio, come Villa Literno lo è per i magrebini, Mondragone per rumeni, polacchi, ucraini... Una suddivisione quasi scientifica, funzionalmente razziale, della zona. Naturalmente con la supervisione della camorra. Non è un caso che l’ unica area franca sia il quartier generale dei casalesi: Casal di Principe. Il reddito procapite provinciale è inferiore a quello medio della Campania (11.833 euro contro 12.247) ed è la metà di quello dei bolognesi. Il prodotto lordo, sempre procapite, nel 2008 era il 39% di quello dei milanesi, così basso da collocare la provincia al novantanovesimo posto su 103. Il tasso di occupazione fra i 15 e i 64 anni era del 38,7%, venti punti sotto la media nazionale. I depositi in banca, nel marzo 2010, non raggiungevano i 5.900 euro procapite: sei volte e mezzo meno che a Trieste. Eppure i negozi e le costruzioni continuano a spuntare come funghi. Nel casertano, anno 2007, sono stati edificati ex novo 135 centri commerciali: per capirci, a Milano 140, in tutta la Liguria 121. «Nel 1997 stilammo un piano regolatore che prevedeva la rottamazione di intere zone», rivendica Mario Luise, «ma l’ attuale sindaco, arrivato dopo di me, lo bocciò con la motivazione che, testuale, "non corrispondeva agli interessi della comunità"». L’ unica rottamazione avvenuta davvero è l’ abbattimento delle otto torri del famigerato «Villaggio Coppola», tirate su praticamente sulla sabbia occupando anche il demanio statale e comunale. Uno scempio che gridava vendetta e divenne un obiettivo-simbolo delle battaglie ambientaliste. Fino a un accordo basato sul buon senso. Dato che l’ orrore era stato provocato anche da insipienze amministrative e che le cause in tribunale avrebbero potuto andare avanti anni, gli ecologisti, il comune e la famiglia, che oggi si riconosce in Cristiana Coppola, vicepresidente della Confindustria con delega per il Mezzogiorno, decisero che era meglio un’ intesa. La famiglia si sarebbe impegnata a risanare l’ area e in cambio avrebbe potuto, nell’ area dove stavano le torri, allargare la darsena esistente fino a 1.200 posti barca. Ipotesi accettata da Legambiente («arrivare a un ripristino integrale dell’ ambiente di un tempo era un obiettivo irraggiungibile», spiega il leader campano Michele Bonomo) ma non da Italia Nostra: «Una oscenità». Ma davvero, davanti a una costa e una campagna come queste, devastate dalla speculazione, dalle discariche, dall’ egoismo insensato di migliaia e migliaia di sedicenti «abusivi per necessità», dalla delinquenza camorrista, il problema centrale sono gli immigrati? Mah... Certo non era questa l’ Italia per la quale morirono sul Volturno, nell’ offensiva finale contro i Borboni, quei ragazzi di cui parla una cronaca del Times di Londra del 27 ottobre 1860: «Garibaldi carezzava la fronte febbricitante di un giovane veneziano a cui non restavano che poche ore di vita e gli chiedeva cosa potesse fare per lui. "Non dimenticare il mio Paese" fu la risposta del giovane agonizzante». Nel caos di questa terra martoriata, non è nemmeno chiaro dove avvenne il mitico «incontro di Teano». Anzi, l’ evento è conteso da due comuni, Teano e Vairano. Che si aggrappano ciascuno a due diversi blocchi di testimonianze. E hanno piazzato tutti e due un proprio cippo sulla propria contrada benedetta: il primo al ponte di Borgonuovo lungo la strada Teano-Caianello, il secondo a Taverna Catena. Sono decenni, come ricorda un lontano articolo di Franco Tontoli, che bisticciano. Decenni. Che sia stato qui o lì, di quell’ incontro resta, bella e amara, la testimonianza di Cesare Abba: «Ed ecco un rimescolio nel polverone che si alzava laggiù, poi un galoppo, dei comandi, e poi: Viva! Viva! Il Re! Il Re! Mi venne quasi buio per un istante; ma potei vedere Garibaldi e Vittorio darsi la mano, e udire il saluto immortale: "Salute al re d’ Italia!". Eravamo a mezza mattinata. Il Dittatore parlava a fronte scoperta, il Re stazzonava il collo del suo bellissimo storno. Forse nella mente del Generale passava un pensiero mesto. E mesto davvero mi pareva quando il Re spronò via, ed Egli si mise alla sinistra di lui, e dietro di loro la diversa e numerosa cavalcata. Ma Seid, il suo cavallo che lo portò nella guerra, sentiva forse in groppa meno forte il leone...». Scrisse il giorno dopo il cronista del Times, recuperato da Adolfo Panarello: «Ovviamente non so dire il contenuto della conversazione, ma fu certo data una spiegazione soddisfacente. Ciò è quanto so. Vi posso assicurare che i due si intesero. Garibaldi accompagnò il Re a Teano, dove ebbe luogo una scena curiosa. La gente cominciò a gridare: "Evviva Garibaldi!". Questi si fermò e disse: "Gridate: Evviva il Re d’ Italia, Vittorio Emanuele!", indicando il Re. La folla gridò così e dopo nuovamente: "Evviva Garibaldi!". Al che il Re disse: "Avete ragione, è lui che è re qui"». Vero? Falso? Fatto sta che quell’ incontro, anche se finì sui libri di storia, i francobolli e le figurine, unì sì l’ Italia. Ma forse non gli italiani. Anche se, quasi un secolo e mezzo dopo, il tentativo di combinare le diverse anime di questo Paese cercò di incardinarsi di nuovo qui. Quando, il 14 aprile 1998, Roberto Maroni partecipò a Teano a un incontro sul federalismo con Giulio Tremonti. Era il primo segnale di disgelo dopo la rottura traumatica del ’ 94. Certo, dieci giorni dopo Umberto Bossi, perdute le elezioni comunali, tuonava contro la gente del Nord che aveva «votato ancora il partito del mafioso», come avrebbe continuato a chiamare Berlusconi per mesi e mesi. Il primo passo, però, era fatto. E la cosa dovette piacere tanto ai novelli padri della patria che due anni dopo vollero tutti insieme, Berlusconi, Fini e Casini e un pò di leghisti, tornare. Slogan: «Ripartire da Teano». Tremonti era in splendida forma e fece una promessa: «Vogliamo ridurre ad un terzo il peso fiscale sulle imprese del Sud. Gli imprenditori meridionali dovrebbero pagare 30 mentre i loro colleghi di altre aree continuerebbero a pagare 100». Ma anche questa promessa, com’ è noto, è stata seppellita. Forse accanto a quel famoso camion...
Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella