Enrico Beltramini, Il Riformista 16/11/2010, 16 novembre 2010
EDITORI ALLA RISCOSSA MURDOCH LANCIA IL PRIMO QUOTIDIANO SOLO PER IPAD
Nuovi orizzonti/1. Costerà quattro dollari al mese. Una scommessa che segnala sconvolgimenti ben più profondi nel mercato, nati dal fallimento del modello “for free” di Internet. Era un sogno per gli utenti e gli inserzionisti. Non per chi produce informazione. Storia di una restaurazione rivoluzionaria resa possibile dalla Apple.
Rupert Murdoch- il magnate che controlla giornali del calibro del Wall Street Journal attraverso la News Corporation- ha annunciato la nascita del primo quotidiano soltanto per iPad. Si chiamerà The Daily, e sarà un vero giornale diretto dall’attuale vicedirettore del New York Post, Jesse Angelo. L’abbonamento costerà un dollaro alla settimana. Murdoch sostiene che l’iniziativa dovrebbe raccogliere almeno 800 mila abbonati.
Nel corso della “Monaco Media Forum”, il figlio James ha dichiarato che le vendite del gruppo via iPad stanno cannibalizzando le copie su carta. Se costretti a pagare, i lettori preferiscono farlo per leggere il giornale in digitale.
La migrazione dalla carta al digitale non era avvenuta quando il contenuto era stato messo gratuitamente sulla Rete. I lettori a pagamento avevano continuato, anche se in numero decrescente, a comprare il giornale in edicola, mentre un nuovo pubblico si era avvicinato alla lettura grazie a Internet.
Questo scenario – contenuto a pagamento su carta e gratuito su Internet - è stato rapidamente rimesso in discussione dalla famiglia Murdoch.
Prima la dichiarazione del padre di James, Rupert, che chiarisce il principio di base: l’iPAd è un “game changer” per il mercato dell’informazione, perchè garantisce agli editori quello che la Rete non è in grado di fornire: un’equa remunerazione del costo del contenuto. Rupert Murdoch non si esprime così, ma il messaggio è chiaro: il contenuto si paga. Soprattutto se è confezionato da professionisti.
Coerentemente all’assunto di base, News Corporation chiude il website di Times of London e trasforma quello di The Times, the Sunday Times e News of the World in siti a pagamento. Il risultato complessivo è la perdita del 90% del traffico.
James Murdoch ha aggiunto che la catena del valore dei contenuti per iPad è diversa da quella dei contenuti su carta. Il prezzo di acquisto è più basso, al pari dei costi di distribuzione. Inoltre, l’interattività permessa dall’iPad offre opportunità di gran lunga maggiori per le inserzioni pubblicitarie. E- bisognerebbe aggiungere- al coinvolgimento e al divertimento del lettore.
La mossa di Murdoch è importante sotto diversi punti di vista. Il primo, banale, è che riafferma il principio per cui il contenuto di qualità si paga. Dietro a Murdoch si possono intravedere, seminascosti, i profili di tanti altri editori sul piede di guerra. Agli imprenditori non è mai andata giù l’idea che l’informazione sia un diritto universale e la Rete il luogo dove la conoscenza è distribuita gratuitamente.
Il secondo, speculare, è che agli editori non interessano gli utenti che non pagano. Il che è un corollario dell’affermazione precedente. Gli imprenditori editoriali stanno nel mondo del business, non della filantropia. Se qualcuno vuole regalare, lo faccia. Ma, come industry, l’editoria vuole essere ricompensata come ogni altro settore economico. Questa idea in cui tutti hanno accesso gratuito all’informazione era un sogno divenuto realtà per gli utenti, ma un incubo per gli editori.
Il terzo punto di vista, conseguente, è che il modello fin qui impiegato dagli editori su Internet- distribuire gratuitamente contenuti per creare traffico e poi attirare gli inserzionisti- è fallito. E’ fallito perché ha dimostrato di essere profittevole soltanto per due categorie di attori: i grandi editori, che possono raccogliere grandi volumi di traffico, e i fornitori di infrastrutture, in primis Google. Per il resto, gli editori piccoli e medi sono sopravvissuti per anni con introiti bassissimi, oppure facendo leva sulla notorietà conquistata sul sito per capitalizzare in modi tradizionali.
La crisi economica ha dato la mazzata finale. Al posto del modello televisivo, gli editori tornano al cammino che conoscono meglio: produrre giornali, magari in digitale, e venderli ai loro lettori insieme alla pubblicità. Anche se cambia la catena del valore, come James Murdoch ha puntualizzato, non cambia il modello. Semplicemente, le cifre si organizzano in maniera diversa, ma l’equazione rimane la stessa.
Il quarto punto di vista è che, ancora una volta, Apple ha fatto bingo. Ha fatto bingo perché, ironicamente, ha costruito un’infrastruttura che va a vantaggio dell’offerta (gli editori) e non della domanda (l’utenza). Esattamente come avvenne con le major musicali, ora tocca agli editori riprendere il controllo del mercato. E lo riprendono, guarda caso, spostando il business fuori da Internet.
È chiaro che qualcosa di grosso sta succedendo su Internet. Guardiamo per esempio alla distribuzione di e-book via Rete. Si tratta di un sistema che apparentemente funziona come quello di Apple: modifica la catena del valore, riducendo i costi di distribuzione. D’altra parte però non offre maggior intrattenimento al lettore, e quindi, almeno teoricamente, il vantaggio di costo dovrebbe essere completamente ‘scaricato’ a vantaggio dell’utente. O almeno, questo è ciò che il lettore si aspetta.
L’ultima guerra della Silicon Valley
Facebook alla conquista delle mail
Nuovi orizzonti/2. Prima lo scontro sull’importazione delle liste di contatti. Poi l’aumento degli stipendi Google per bloccare l’esodo dei talenti. Ora la madre di tutti i social network rilancia, annunciando un servizio di posta elettronica. Una sfida da centinaia di milioni di utenti.
di Stefano Ciavatta
«IMPORTANT: Don’t send me a Facebook message. I don’t read ’em. Email me». Forse dovrà ricredersi, o forse no, Jolie O’Dell, bionda giornalista di TechCrunch, che sul suo profilo Facebook invita gli utenti a non inviarle messaggi privati ma semplici email.
Nel dubbio, a tagliare corto ci ha pensato Mark Zuckerberg, lanciando l’account email “@facebook.com”. Il volto da ragazzino un po’ ebete e saccente del più giovane bimillionario del mondo- ritratto con grande efficacia dal film di Finch- alla fine ha deciso di mostrare i denti, proprio nel momento in cui Bloomberg colloca la sua capitalizzazione di mercato a 41 miliardi di dollari, dopo Amazon.com (74,4 miliardi), e Google (192,9 miliardi).
E così Facebook, dopo un anno di lavoro al progetto mail Titan, ha lanciato definitivamente la guerra alla vetta, precisamente a Google. Con la presentazione a porte chiuse di ieri in California (dove altrimenti?), il social newtwork da 500 milioni di utenti ha annunciato di volersi avvalere di un proprio servizio mail, facendo feroce concorrenza ai 170 milioni utenti registrati di Gmail, ai 303 di Yahoo e ai 364 di utenti di Hotmail.
Da utenti si può cambiare tranquillamente socialnetwork, è successo con la massiccia e indolore migrazione da Myspace a Facebook, ma la mail, anche se poco considerata oggi nel mondo delle applicazioni, resta un oggetto delicato: spesso strumento di lavoro, risulta complessa da gestire nel momento di scosse o cambiamenti. D’altra parte la messaggistica interna ai social network ha già ridotto un certo tipo di traffico mail.
Di sicuro aprire un servizio mail da Facebook verso l’esterno richiederà molto impegno. Per alcuni la mossa della webmail targata Facebook segna un ritorno al passato, da “normale azienda web”.
Cosa può succedere ora? La Stampa ha raccolto giorni fa l’opinione di Michael Arrington, fondatore di TechCrunch: «Facebook potrà sfruttare la sua conoscenza, e cioè i legami tra i suoi membri, per dare alle e-mail un ordine di priorità personalizzato. Stando a ZDNet, il sito di news tecnologiche appartenente a CBS, la creatura di Zuckerberg dovrebbe anche stringere l’alleanza con Microsoft integrando nella posta la versione online del pacchetto Office. Gli utenti potranno così condividere testi, presentazioni e fogli di calcolo nello stesso modo in cui già fanno sulla posta di Google grazie a Google Docs».
Questo come scenario immediato. Gli altri storici servizi mail non stanno a guardare. Quello del service provider Aol si è appena rinnovato, idem per Windows Hotmail.
Ma Facebook ha iniziato a fare concorrenza anche sotto un altro punto di vista. Il progetto di webmail di Zuckerberg contiene infatti un allegato insidioso: la campagna acquisti del personale Google. Sono molti i cervelli di Mountain View che hanno preferito trasferirsi a Facebook: l’ad di You-Tube Chad Hurle, il co-fondatore di AdMob Omar Hamoui e il creatore di Google Maps Lars Rasmussen. Paradosso, anche il creatore di Gmail e Friend Feed, Paul Buchheit, è transitato alla corte di Zuckerberg, per poi lasciare in favore una nuova start up.
Che succede nella Silicon Valley, il futuro ambito e adrenalinico è nei social network?
Per prevenire fughe indesiderate verso Facebook, pochi giorni fa Eric Schmidt, Ceo di Google, ha alzato gli stipendi del 10%. Per i manager il rialzo sarebbe del 30%. Patrick Pichette, Nikesh Arora, Alan Eustace e Jonathan Rosenberg passerebbero da 500.000 a 650.000 dollari. Così emerge dalle informazioni fornite alla SEC, la Consob americana. Oltre all’aumento, Google avrebbe previsto per Natale anche un bonus di 1000 dollari.
Su una cosa però Google non è disposta più transigere nei confronti di Facebook, ancora di più dopo l’atteso varo di Titan: la questione degli indirizzi di posta Gmail importati dall’utente su Facebook. La funzione più elementare per l’avvio di un social network, perché con le mail si accede ai profili di cui- grazie a una piattaforma come Facebook- si riesce a sapere tutto in ottica di marketing e spionaggio.
Fino a oggi Facebook ha utilizzato le Contact Data API di Google per aiutare l’utente a importare la propria lista di contatti dall’account Gmail. Un movimento unidirezionale, che avvantaggia solo Facebook, perchè i dati dl social network non escono mai fuori.
Google ha tentato di impedire la cosa, mettendo persino in guardia gli utenti: «Se lo fai, metti in trappola i miei contatti ora». Le restrizioni sono state però aggirate da Facebook. Adesso che si torna a parlare di mail, lo scontro sui contatti è destinato a farsi più duro.