Loris Mazzetti, il Fatto Quotidiano 16/11/2010, 16 novembre 2010
ANDREA GALLO PRIMA DI DON GALLO
Esce domani per Aliberti “Sono venuto per servire”, una lunga conversazione di Loris Mazzetti con Don Gallo, in cui il celebre prete genovese ripercorre l’avventura della sua vita. Di seguito un estratto.
Com’eri da ragazzo? Cosa pensavi? Perché hai deciso di entrare in seminario per prendere i voti? Chi sono i tuoi maestri che ti hanno portato a essere quello che sei, un prete da marciapiede, come ami definirti?
Loris, ti parlo di quando ero ancora laico, prima della conversione. A quindici anni ero in Marina. Ero un ragazzo molto educato, studiavo al liceo nautico di Genova. A quindici anni meno un mese feci il giuramento. Mi ricordo ancora il numero di matricola: 09645, credo che sia tutto scritto negli archivi. Sai cosa significa lo zero davanti al numero?
No.
Volontario.
Perché hai scelto il liceo nautico?
Sono nato a Genova. Quello che mi piace è che Genova è un porto. Vuol dire che accoglie tutti. Io mi sento portuale. Da ragazzino vedevo cinesi, neri; ho sempre amato il porto. Il Duce aveva detto che dovevamo conquistare il mondo. Se non avessi fatto il prete avrei voluto fare il marinaio.
Quando pensi a Genova ti capita di dire: “Questa è la mia città?”
No. Io dico: ‘Sono a casa’. Quando sono ad Ancona, a Roma, divento matto. Mi offrono alberghi. No, rifiuto e torno a casa. Come sono vicino a Genova comincio a sentire gli odori della mia terra.
Quando eri ragazzo, credevi veramente che Mussolini
avrebbe conquistato il mondo?
Sei matto. Certamente no, ma ero cresciuto con le regole fasciste. Eravamo tutti dei soldatini. Era il 1943, l’anno in cui scoppiò l’8 settembre. A luglio avevo compiuto quindici anni e proprio il giorno del mio compleanno, il 18, viene considerato il più caldo della storia. Luglio per me è sempre stato un mese importante: c’è la festa della Madonna del Carmine, che poi nel 1964 è diventata la mia parrocchia, lì è cambiata la mia vita. Sempre a luglio, nel 2001, c’è stato il G8 di Genova. In quei quattro giorni ho partecipato a tutti i cortei con i giovani che chiedevano: ‘È possibile costruire un mondo migliore?’. Quanti lacrimogeni. Mi ricordo che ci sono volute due ore per poter vedere di nuovo. Ho fatto parte dei garanti del Genova Social Forum, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani e i vari pestaggi, avevo chiesto una Commissione parlamentare d’inchiesta. Il governo Berlusconi di allora si rifiutò. Era nel programma di quello di Prodi ma non si è fatto nulla lo stesso. Per fortuna che i pubblici ministeri hanno svolto un lavoro eccezionale a sostegno della verità. Torniamo al ’43. Mio fratello era tenente del reggimento genio pontieri, aveva otto anni più di me, anzi, sette e mezzo, classe 1921. Era stato trasferito a Milano quando il suo reggimento, di complemento, doveva partire, addirittura per la Russia. Man mano che i soldati italiani morivano nella terra di Dostoevskij, prendevano gruppi dal genio pontieri e li mandavano al massacro. Mio fratello si era salvato perché due mesi prima, dopo i bombardamenti a tappeto di Milano del ’43, il suo reparto era stato trasferito lì per ripulire le macerie. Era facile trasferire un reggimento di pontieri: avevano zappe, badili, camion, avevano tutto. Arrivarono a Milano e misero le tende nel parco di villa Manzoni. Scoppia l’8 settembre. Non c’erano molte alternative : o andare con i fascisti a Salò o la fuga. Per le strade sparavano a chiunque non fosse uno di loro. Alla fine del mese a Genova, di nascosto, tornarono a casa i primi militari che non avevano aderito alla Repubblica di Salò. Di mio fratello nessuna notizia. Io ero tornato a Genova da La Spezia. In casa non avevamo nemmeno il telefono. Per una famiglia povera come la nostra era difficile ricevere notizie. Ogni tanto qualcuno ci forniva qualche informazione. Il 25 luglio, con la caduta di Mussolini, avevamo sperato nella fine della guerra. Con Badoglio, invece, si continuava a sparare. Il maresciallo aveva messo perfino le stellette ai pompieri, che avevano il compito di recuperare i morti. Tutti in città indossavano le camicie grigioverdi, quelle nere le avevano solo gli appartenenti alla milizia.
Come si chiamava tuo fratello?
Bernardo, ma tutti lo chiamavano Dino. Dino divenne anche il suo nome di battaglia. Subito dopo l’8 settembre era entrato nella Resistenza ed era al comando di una brigata di partigiani. Ai primi di novembre, ricordo che era sera, sentimmo bussare alla porta di casa, andai io ad aprire. Mi trovai davanti il mio fratello ufficialetto. Dino era finalmente tornato. Lo consideravo un mito, lui era il mio mito. Puoi immaginare: baci e abbracci a me, a mamma e a papà. Lo avevamo dato per disperso, invece era lì, con noi. Da mesi non avevamo più sue notizie. Fu Dino a informarci della nascita della Resistenza. Per me fu una vera sorpresa, il tanto esaltato asse Roma-Berlino-Tokio ormai non
esisteva più. ‘Cosa decidi?’ mi chiede mio fratello. ‘A ogni modo
io rientro immediatamente nella Resistenza, tu fa quello che ti senti’. Io non conoscevo nemmeno il significato della parola “democrazia”, figuriamoci quello di resistenza. Gli insegnanti non ne parlavano, avevano la responsabilità di inculcarci una certa cultura. La parola ‘resistenza’ non l’avevo mai sentita dire, non esisteva neanche sui vocabolari. Quei giorni trascorsi con Dino furono importantissimi. Capii l’importanza della lotta per la Liberazione. Mi parlò di valori, del concetto di libertà. Aprii gli occhi sul nazifascismo. Scegliere da che parte stare anche per me fu facile. ‘La Resistenza è stato il movimento di un popolo che non rivendicava qualcosa per sé, ma chiedeva un diritto per tutti: la libertà per un intero Paese, anzi per tutto il mondo, dal folle progetto nazifascista’. Su quei valori cominciò il mio percorso di vita. Sono un miracolato, prima che da Dio, dal fascismo. La consuetudine del liceo era che tutti gli allievi si arruolassero in Marina. Io appartenevo alla classe del ’28, ero tra quelli citati nel famoso manifesto che nel 1944 tappezzava i muri di Genova: ‘Tutti i militari devono presentarsi, chi non si presenterà entro il tal giorno, sarà passato per le armi’. Lo ricordo come se lo stessi vedendo appeso ora. Ero ancora un ragazzo, decisi di disertare e di seguire mio fratello entrando nella Resistenza. Diventai una staffetta. I fascisti pubblicarono tutti i nomi dei disertori, per fortuna dimenticarono il mio. “Nan” era il mio nome di battaglia, diminutivo di “Nasan”, che in genovese significa nasone che era il soprannome che mi avevano dato a scuola, a causa del mio naso prominente. Capii che il mio lavoro poteva essere prezioso:
avevo già avuto esperienze
con le armi. Ricordo il giorno dei morti del ’44. La linea ferroviaria per la valle
Sura era interrotta per lavori. La galleria del Turchino era presidiata dai tedeschi giorno e notte. Le persone passavano una alla volta con i documenti alla mano. Ero figlio di ferroviere, per questo avevo una tessera particolare, marrone, con le stampine dello Stato. Ogni volta che a un posto di blocco mi fermavano la facevo vedere. Quando arrivavo al controllo con il dito indicavo la classe perché dimostravo più anni, ero già fisicamente ben sviluppato. Arrivò il mio turno. Un tedesco con elmetto e cappotto, eravamo a novecento metri e faceva già molto freddo, puntandomi il fucile mi chiese i documenti. Feci il solito gesto con la mano quando la guardia tedesca cominciò a gridare. Non capivo nulla di quello che diceva. Tentai di fargli capire che la fila era lunga e la stavamo rallentando inutilmente. Proprio scemo non lo ero. ‘Non conoscerà mica tutti i disertori a memoria, poi il mio nome non era tra quelli segnalati’ pensai. Mi fece uscire dalla fila, posò il fucile e tirò fuori il suo documento facendomi capire, continuando sempre a urlare, che era nato nel ’29, più giovane di me, e che io non stavo facendo il mio dovere. Le persone, in fila, che avevano assistito a tutta la scena, cominciarono a dire che ero ancora un bambino, che avevo poco più di sedici anni. Ho temuto che chiamasse l’ufficiale di guardia.
Stavi trasportando qualcosa?
Avevo qualche carta nelle scarpe: ordini per la brigata. Alla fine il tedesco mi fece passare. Me la sono cavata. Dopo il 25 aprile 1945 ricordo un altro giorno di grande gioia e di grande significato. Era la primavera del ’46, elezioni amministrative, per la prima volta le donne ebbero la possibilità di votare. La Resistenza ha portato anche questo: il voto universale per tutti, uomini e donne che avevano compiuto la maggiore età, 21 anni. Ricordo la gioia di mia mamma, delle zie, che non avevano mai votato prima di allora. Mia mamma aveva vent’anni nel 1915, quando scoppiò la Grande guerra, il voto lo sentiva come un diritto. (...) Che dolore vedere la democrazia subordinata alla sicurezza.
Come erano i tuoi genitori?
Mia madre era una donna molto saggia. Mio papà, stava sempre zitto. Un pezzo d’uomo col cappello d’alpino sempre in testa: artiglieria da montagna. Era un reduce della Grande guerra, ferroviere di Campo Ligure. Un giorno portai a casa la pagella. In fondo c’era scritto: ‘Andrea Gallo: ariano’. Lui scosse la testa, disse: ‘Si sono sbagliati, noi siamo razza di Campo’. Era ignorante ma aveva capito tutto. Anche lui mi ha insegnato tanto.