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 2010  novembre 15 Lunedì calendario

Pacquiao, la furia fa a pugni col passato - Una città, due campioni, due opposti destini. General Santos City, laddove le Filippine guardano in faccia l’Indonesia

Pacquiao, la furia fa a pugni col passato - Una città, due campioni, due opposti destini. General Santos City, laddove le Filippine guardano in faccia l’Indonesia. Manny Pacquiao, la meraviglia pugilistica del momento. Rolando Navarrete, l’idolo nazionale di tempi ormai andati. L’altra notte, l’ultima recita del primo, in attesa di nuovi inesplorati traguardi. Poco meno di due decenni fa, il canto del cigno del secondo, già male avviato sul viale del tramonto. Manny Pacquiao contro Antonio Margarito, sfida da grandi arene e immense folle, da far riaprire le porte del Cowboys Stadium di Dallas, dove infilare decine di migliaia di appassionati (con biglietti tra i 50 e i 700 dollari), un po’ come per i locali eroi del football americano. Una sfida vinta ai punti ma nettamente e alla sua maniera, da autentica macchina da pugni qual è, una belva che va avanti e colpisce, senza curarsi d’altro, neppure dei cazzotti di un portoricano non da comparsate, bruciando energie, fino all’ultima goccia. Ci mette la faccia, i pugni, il cuore. E vince, dominando. Una volta di più, tanto per rimpinguare un record che resisterà forse all’infinito: mondiale Wbc dei medi junior, ottavo titolo in altrettante categorie differenti. E via, verso sogni di gloria ulteriore. Roba di retroguardia invece, l’ultima di Rolando Navarrete, il connazionale, anzi il vicino di casa. Giù al sesto round, contro tal William Magahin, a chiudere una carriera che di prestigio e onori gliene aveva riservati a piene mani. Era il 1991. Pacquiao a suon di pugni ha conquistato l’America: una settimana fa la Cbs ha diviso in due parti il programma d’attualità «60 Minutes», un documentario sul pugile filippino, un’intervista al presidente Obama; nel 2010 è stato il pugile di maggior successo negli States, sia al botteghino che in pay-per-view; un anno fa ottenne 22 milioni di voti nel concorso per i 100 personaggi più influenti del pianeta del magazine «Time»; nei mesi scorsi una squadra di football americano, i San Diego Chargers, e due di baseball, San Francisco Giants e Los Angeles Dodgers, lo hanno invitato a sfilare sul campo prima di una loro partita; questo mese è l’uomo-copertina del magazine di bordo dell’American Airlines. Pure Navarrete era divenuto personaggio a tutto tondo, anche fuori dai patri confini. In Italia, la sua consacrazione (su un ring nello «Stadio dei pini» di Viareggio) che però lo proiettò ai vertici della boxe mondiale. Una macchina di pugni, anche lui. Quella notte (il 29 agosto del 1981) stroncò in meno di 5 round le difese di Cornelius Boza-Edwards, ugandese di Kampala, in un match da tramandare ai posteri, che gli regalò il mondiale Wbc dei superpiuma e lo aiutò a spingere nel cassetto dei brutti ricordi il precedente tentativo, naufragato al cospetto del leggendario Alexis Arguello. Entrambi celebri, all’estero. E, soprattutto, trattati alla stregua di eroi in patria. Pacquiao è stato eletto al Congresso, in futuro guarda perfino alla carica di Presidente. E’ come un dio pagano, nelle Filippine. Quando combatte ferma la guerra, come d’incanto: ripongono le armi i ribelli, così come i governativi. E i criminali stoppano le loro attività illecite. Normale, del resto, se il 70 per cento della popolazione non rinuncia a gustarsi in tv le sue imprese. E se si cimenta nel canto, il suoi cd volano verso la vetta dei più venduti del Paese. Per farsi un’idea di chi fosse Rolando Navarrete nelle Filippine circa trent’anni fa, basta il suo attuale soprannome: «The original Pacquiao». Lui, l’originale. Manny, la copia. Il Paese era ai suoi piedi, come ora per il successore. Gli fecero perfino interpretare se stesso in un film intitolato «The Bad Boy of Dadiangas», come da antico soprannome. Due campioni, due opposti destini. Parabola a un solo ramo, quella di Pacquiao, sempre in salita. Al contrario di quella di Navarrete, prima su, poi giù nel baratro. Eppure era cominciata allo stesso modo, grama esistenza per le vie di General Santos City. Pacquiao da bambino aiuta la mamma a vendere le sigarette, a 14 anni scappa di casa dopo che il papà per punirlo cucinò e mangiò il cagnolino cui lui era molto affezionato. Vita da strada, proprio come per il predecessore, uno di ben 11 figli, passato alla boxe per sfuggire alla fame, un ragazzo d’oro che dopo ogni match comprava bottiglie di liquore e pacchetti di sigarette da condividere con amici e tifosi. Esistenza grama, da adolescenti, per entrambi. Solo che uno se n’è tirato fuori, grazie ai pugni. E l’altro v’è tornato in mezzo, nonostante i pugni. Abitano a pochi chilometri di distanza, nella stessa città. Pacquiao nello sfarzo principesco di una villa da favola, dove quelli del suo clan fanno la conta per avere l’onore di dormire ai piedi del suo letto. Navarrete - che nel frattempo è stato lasciato dalla moglie, ha bruciato tutti i guadagni della sua carriera sul ring, è finito in ospedale per una coltellata (lo tirò fuori uno dei suoi 10 fratelli perché lui non aveva i soldi per pagare il conto), s’è fatto quattro anni di carcere per stupro - nella triste miseria di una casa costruita con le sue stesse mani, in gran parte col legno, dimora in cui ancora fa bella mostra di sé una foto dei bei tempi andati, lui al fianco del presidente Marcos. Dire che Manny Pacquiao sia ricco significa usare un eufemismo: è molto di più, se l’anno scorso, secondo Sports Illustrated, è stato il sesto atleta più pagato del mondo, con ricavi per 40 milioni di dollari (non esita a elargire grosse somme alle 200 persone del suo a dir poco numeroso staff). Come lo è affermare che Rolando Navarrete è povero: è molto di più, se ogni due settimane è costretto a far visita al Comune per beccarsi il suo misero assegno da 60 dollari, unico (o quasi) suo sostentamento. Una città, due campioni, due opposti destini. Manny Pacquiao guarda avanti e non si pone limiti: «Un giorno vorrei diventare presidente delle Filippine». Rolando Navarrete si guarda alle spalle e si ritiene soddisfatto: «Malgrado tanta sfortuna nella vita, mi ritengo fortunato: sono ancora vivo».