PIERANGELO SAPEGNO, La Stampa 14/11/2010, pagina 21, 14 novembre 2010
Il Grand Hotel spegne le stelle - Sarà difficile vederlo chiuso, il Grand Hotel, senza un signore in frac che scenda le scale
Il Grand Hotel spegne le stelle - Sarà difficile vederlo chiuso, il Grand Hotel, senza un signore in frac che scenda le scale. Qualche fantasma passerà lo stesso, guardandosi nella specchiera a petalo della suite 315, tra i marmi neri venati del bagno, l’intonaco un po’ grinzoso, come sui muri d’un tempo, quando invecchiano. Eppure, il suo patron, Antonio Batani, ha appena annunciato che chiuderà tutto l’inverno, da gennaio fino a Pasqua, come una pensione qualsiasi, come un qualunque alberghetto di Rimini. Niente aveva mai fermato il Grand Hotel, nemmeno la morte del commendator Arpesella, che era stato il suo padrone e il suo custode fino alla fine del secolo, e neanche i debiti, la crisi, e poi i tempi nuovi, così diversi e così lontani da quelle atmosfere di tendoni a strisce sulla spiaggia, di abiti di lino bianco, con le sedie di vimini sulla terrazza e i cappelli di paglia. Niente aveva mai fermato il Grand Hotel. Nel 1994 era diventato monumento nazionale. Quasi fallito, ma sacro. È che il Grand Hotel è un tempio. Solo che adesso, Antonio Batani dice che «l’inverno si mangia il guadagno dell’estate. È stata una decisione dolorosa, ma l’ho dovuta prendere per forza». Batani s’è dannato l’anima a spiegare: «In questi giorni abbiamo avuto una trentina di clienti e una settantina di dipendenti che costano tra stipendi e contributi sui 2400, 2500 euro il mese a testa. Si fa presto a fare i conti». In effetti, hanno fatto in fretta a farli. È che il Grand Hotel era sempre stato questo, un museo del turismo, la fotografia di un tempo. Negli ultimi anni, dentro alla sua crisi, aveva cambiato 4 volte proprietario, venduto e svenduto, gestito da amministratori giudiziari, oggetto di Opa o ridotto a garanzia per titoli atipici, avendo una volta 2 mila padroni in un colpo solo (tutti i creditori lasciati in un mare di guai dal crac di Cultrera) e la volta dopo finendo nelle braccia dell’ultimo furbetto del quartierino, l’immobiliarista Coppola. Riuscendo sempre, miracolosamente, a mantenere intatta la sua sacralità, come un tempio, dove tutto può crollare fuori, ma dentro no, con il suo personale che ti trattava alla stessa maniera, come se niente stesse succedendo, anche se magari erano 5 anni che non ti vedeva, e anche se, oltre quelle finestre e al di là di quelle mura, tutto stava morendo. Quando alla fine arrivò Antonio Batani a prenderselo, lui che aveva cominciato da cameriere per diventare padrone di una catena di alberghi, disse che aveva realizzato il suo sogno da bambino, quando ci passava davanti in bicicletta, guardandolo da fuori, proprio come faceva Fellini prima d’essere il regista della Dolce vita. Batani sprizzava gioia: «Ora deve tornare a rendere. Non è possibile che un albergo così sia in perdita». Diceva: «Soggezione non ne ho. Paura, un po’. Questo non è un albergo come gli altri». E difatti non lo è. Tra i suoi colori, avorio e oro, fra i mori settecenteschi di legno scrostato che reggono le lampade, fra i comò francesi e i pavimenti di veneziana, ha raccolto in simbiosi tutta la vita del suo custode, Pietro Arpesella, un vecchio signore che non c’era già più da un pezzo, ma che era rimasto lì dentro a guardare con nostalgia il Grand Hotel di Fellini che era fallito con lui prima che restasse aggrappato al suo passato. Arpesella era come il Grand Hotel, uno creatura dell’altro. Per morire si sparò un colpo di Smith&Wesson all’addome, dopo essersi vestito come per andare a un matrimonio, con le scarpe di coccodrillo e il completo più elegante, color grigio, e aver messo in ordine la scrivania e scritto le sue ultime parole: «Quant’è bella Rimini, baciata dai primi raggi di sole». Ecco cos’è il Grand Hotel, è questa roba qui, questa partita a carte una sera d’inverno, questo mondo perduto. Si può davvero chiuderlo col freddo come un albergo qualunque? Rimini ha levato un mucchio di grida d’allarme. Da Patrizia Rinaldis, presidente degli albergatori («È un bruttissimo segnale. Non vorrei che altri lo seguissero, sarebbe un disastro»), all’assessore regionale al turismo, Maurizio Melucci («Mi auguro che sia solo una soluzione transitoria. Il Grand Hotel non è solo il simbolo di Rimini e dell’Italia per l’estate. Lo è per 12 mesi all’anno»). Però, il mondo cambia e va così. Nel giorno del suo centenario - il Grand Hotel è nato l’1 luglio 1908 -, Batani ripeteva che «è più di un albergo. È lo scenario di una città, di un paese intero, forse». Del suo immaginario. Senza la fantasia, e tutti quegli ospiti conservati come reliquie dalla memoria di Arpesella, da Mussolini e la Petacci a Lady D, dal Gran Visir a Enrico Caruso e Guglielmo Marconi, sarebbe un relitto di veliero arenato. Era stato il Grande Federico a renderlo una sua creatura, quasi fosse uno dei suoi film, a trasferire questi 4 piani di liberty ordinario in un regno della fantasia. Per questo qui dentro c’era rimasto Arpesella fino alla fine dei suoi giorni e che forse non è mai andato via davvero dopo aver rappresentato la sua morte. E per questo l’albergo era sopravvissuto anche a Fellini, all’uomo che lo aveva reinventato, staccandolo dalla vita per portarlo nell’illusione, dopo averlo guardato e sognato dall’altra parte dei vetri, tra le sfilate di principi e marajà, di autisti in livrea e signori con le ghette. Fellini diceva che lo amava anche d’inverno, il Grand Hotel. Era così bello, immerso in una bambagia di nebbia, davanti al mare grigio.