SERGIO MIRAVALLE, La Stampa 14/11/2010, pagina 11, 14 novembre 2010
I silenzi e le preghiere del “cavalier metanolo” - Sul campanello il nome non c’è. Poco importa
I silenzi e le preghiere del “cavalier metanolo” - Sul campanello il nome non c’è. Poco importa. A Narzole lo sanno tutti dove abita il «Tuchin», al secolo Ciravegna cavalier Giovanni, classe 1921. Un nome legato indissolubilmente allo scandalo del vino al metanolo che nella primavera del 1986 sconvolse la vita italiana. Fu una tragedia della sofisticazione che causò diciannove morti e almeno una decina di bevitori a causa di quel falso vino persero la vista. E’ passato quasi un quarto di secolo, ma la parola metanolo da queste parti raggela ancora il sangue, un marchio d’infamia che fatica a svanire. Non ci sono più le cisterne in vetroresina nel cortile della casa del cavalier «dudes e mes», (dodici e mezzo, ndr), un soprannome che suonava come riconoscimento sul campo, o meglio in cantina, per la capacità di aggiustare qualunque vino alla gradazione voluta. L’uva c’entrava poco, spesso era un optional. A Narzole non era l’unico: un paese di 3500 anime e 120 commercianti da vino a un tiro di schioppo dall’Albese e dalle vigne, dall’altra parte del Tanaro. I «narzolini» erano specializzati in commercio all’ingrosso, con un vorticoso giro di cisterne e damigiane. Fino a quella primavera. Il 21 marzo furono arrestati Giovanni Ciravegna e il figlio Daniele, un diploma da enotecnico preso alla gloriosa scuola enologica di Alba. I carabinieri erano arrivati a loro seguendo il percorso a ritroso di un vino avvelenato con dosi mortali di alcol metilico. L’allarme scattò il 16 marzo all’ospedale Niguarda di Milano quando morì Benito Casetto, un ferroviere. Alcuni giorni prima c’erano stati altri morti sospette. Un legame univa le vittime. Erano forti bevitori, abitavano nella stessa zona e avevano acquistato al supermercato bottiglioni da due litri etichettati «barbera» della ditta Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino, nell’Astigiano. Le analisi fecero scoprire un intruglio rosso con mortale contenuto di metanolo, un alcol altamente tossico, presente nel vino solo in quantità infinitesimali. Vincenzo Odore finì in manette. Raccontò di essersi rifornito pochi giorni prima dalla premiata ditta Ciravegna. Nel capannone di Narzole si trovano 9000 ettolitri di vino metabolizzato. Da chi? «Sofisticatore sì, assassino no», ha continuato a ripetere negli anni il cavalier Ciravegna. «Mica sono pazzo ad avvelenare i miei clienti». In tribunale ad Alba lo avevano già condannato a 500 milioni di multa per zuccheraggio, ma si era salvato in appello. Questa volta però c’erano dei morti. Lui non disse da dove arrivava quell’alcol e neppure a quali imbottigliatori aveva venduto quel vino. In quei giorni fu il caos. I morti si susseguivano, dalla Lombardia alla Liguria. Centinaia i ricoverati. Il ministro dell’Agricoltura Pandolfi apparve in tv cercando di tranquillizzare la gente. Sui giornali venivano pubblicate confuse liste dei vini proibiti fornite dal ministero. Il mercato si bloccò, le esportazioni crollarono. Per molti fu proprio quello scossone a rilanciare la produzione del vino di qualità e a far capire ai consumatori che sotto certi prezzi non può essere vino vero. Ciravegna al processo raccontò: «Ho sbagliato a non dire subito chi mi aveva fornito quell’alcol di contrabbando, che credevo fosse etilico, una semplice sofisticazione per aggiustare un po’ il grado. Avrei potuto liberarmene come hanno fatto tanti furbetti che, scoppiato lo scandalo, hanno scaricato le cisterne e il Tanaro in quei giorni era diventato rosso». Non solo di vergogna. L’inchiesta portò alla sbarra altri grossisti e faccendieri in Puglia, Romagna, Veneto. Si scoprirono le strade nascoste del vino fasullo venduto a cisterne e navi. Sullo sfondo forse una truffa miliardaria ai danni della Cee. Quella roba doveva andare alle distillerie per incassare i contributi finì invece nei bottiglioni a basso prezzo. Durante la bufera tutti chiesero processi rapidi e pene esemplari. Il 27 aprile 1986 migliaia di viticoltori sfilarono, con i gonfaloni dei paesi del vino, per le vie di Alba: uno di loro, Eugenio Pollo della Coldiretti di Alessandria, morì d’infarto sul palco. Si scoprì che il metanolo era stato da poco liberalizzato togliendo dai controlli fiscali: una pacchia per i mestatori. Tra conflitti di competenze e un mare di perizie l’inchiesta andò a rilento. Il 1986, hannus hooribilis per la salute pubblica proseguì con le ansie per l’atrazina negli acquedotti di mezza Pianura padana la grande paura mondiale causata dall’esplosione del reattore nucleare a Cernobil. Ciravegna e il figlio lasciarono il carcere di San Vittore nell’ottobre 1987 per decorrenza dei termini. La loro ditta poco dopo fallì, ma il cavaliere non voleva mollare e soprattutto rifiutava il ruolo di capro espiatorio. Chiese al sindaco di allora la vidimazione dei registri di cantina per continuare l’attività in proprio. Il vento era cambiato. Gli fu negata. Nel novembre del 1991 l’inchiesta dei giudici istruttori milanesi Tucci e Grigo e le richieste del pm Nobili sfociarono nel processo di primo grado a 18 imputati per omicidio volontario plurimo. Davanti alla telecamere Ciravegna rimase impassibile. Alle sue spalle c’erano i parenti delle vittime e alcuni «clienti» del suo vino con il bastone bianco della cecità. Si presentarono 54 parti civili, oltre ai danneggiati, enti, associazioni dei consumatori. C’era anche il comune di Narzole. Finì con 12 condanne per oltre un secolo di pena. Al cavaliere i giudici comminarono 16 anni al figlio 13. In appello nel 1993 la pena fu ridotta rispettivamente a 14 e 11 con 4 anni condonati; sentenza confermata in Cassazione. Per i Ciravegna si riaprirono le porte del carcere. Dalla cella il commerciante scrisse e accusò. Voleva dare alle stampe un memoriale: la sua verità. Raccontò che in quel mondo per andare avanti bisognava «ungere le ruote». Le sue dichiarazioni fecero aprire un’inchiesta tra gli ispettori della Repressione frodi. Nella sentenza del metanolo erano previsti miliardi di risarcimenti per le parti civili. Nel 2006, a ormai vent’anni dallo scandalo, non era ancora stato versato un euro. Roberto Ferlicca, figlio di una delle vittime ha scritto un libro: «Terrorismo acido». Ciravegna, dopo i primi anni in cella è stato assegnato, vista l’età, alla comunità dei padri Comaschi di Padre Albano. Preghiere e lavoro e anche un’esperienza come volontario in Romania in una comunità di poveri minatori. Il figlio si è sposato e ora vende macchine agricole in altro paese. Lui è tornato a Narzole nella sua casa insieme alla moglie che lo protegge da ogni curiosità. "Ha 81 anni, non disturbatelo più». A Narzole commercianti di vino ne sono rimasti una ventina. Molti hanno chiuso altri si sono trasferiti. In municipio il sindaco Fiorenzo Prever, medico condotto, si impegna per abbinare il nome di Narzole ad eventi positivi. Dal 19 al 21 novembre i manifesti annunciano la duecentesima fiera napoleonica. Ci sarà anche Gianna Gancia, la compagna del ministro Calderoli da Narzole ha spiccato il volo politico verso la presidenza leghista della Provincia di Cuneo. Verrà inaugurato il depuratore da 5 milioni di naz euro: «Mandiamo nel fiume acqua pulitissima» spiega il sindaco. Il Tanaro ora non si vergogna più.