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 2010  novembre 16 Martedì calendario

LA PRIMA CRIVI DEL CAV. QUANDO FINI GRIDAVA AL «GOLPE» DI BOSSI

C’era una volta un «traditore», che Lui allora chiamava «il mio Umbertone», che poche sere prima aveva pasteggiato a sardine e pan carré, e brindato all’imminente caduta del governo con birra in lattina e coca cola. C’era una volta un inossidabile fedelissimo, che Lui allora chiamava «il mio Gianfranco», che pur di non bere il velenoso calice del Giuda continuava a ripetere «Berlusconi innanzitutto, Berlusconi soprattutto». C’era una volta l’Aula di Montecitorio, in cui la maggioranza dei deputati aspettava di votare tre mozioni di sfiducia. E soprattutto c’era una macchina che marciava spedita verso il Quirinale. Con un uomo, seduto dietro, che sussurrava: «Non pensate che sia una resa. Io sono come Van Basten». C’era una volta il 22 dicembre 1994. Il giorno della «caduta», che il manifesto dell’indomani avrebbe celebrato con l’ultima beffa all’unto del Signore. E un titolo natalizio: «Tu cadi dalle stelle».
Che fosse arrivato al de profundis, il Berlusconi I figlio del nordista «Polo della Libertà» (Forza Italia più Lega) e del sudista «Polo del Buongoverno» (Forza Italia più An), era chiaro da un mese. Da quando il Cavaliere, alle 21 del 21 novembre, a poche ore dall’inizio della Conferenza Onu sulla criminalità in programma a Napoli, viene informato del celeberrimo avviso di garanzia di cui avrebbe dato notizia, il giorno successivo, il Corriere della sera. Dieci giorni e sarebbe successo di tutto: la guerra dichiarata di Berlusconi a Oscar Luigi Scalfaro («Il Presidente mi deve sostenere senza tentennamenti e ambiguità»), l’ispezione del guardasigilli Alfredo Biondi nelle stanze del Pool di Mani Pulite, la manifestazione di diecimila forzisti a favore del governo, la vittoria del centrosinistra al ballottaggio di un mini-turno di amministrative, le dimissioni di Tonino Di Pietro dalla magistratura, con quella toga tirata giù al grido di sì, «me ne vado, con la morte nel cuore».
Ma visto che nemmeno una guerra mondiale può scoppiare senza un incidente, ecco che spunta, all’esame della Camera, la proposta del presidente Irene Pivetti di istituire una «commissione speciale sul riordino del sistema radiotelevisivo». Quel 15 dicembre del 1994, mentre Fabio Fazio sta consultando gli indici d’ascolto del suo Quelli che il calcio... e Roberto Saviano non è che un quindicenne spensierato (Mauro Masi, un anno dopo, sarebbe diventato lo spin doctor ombra del governo Dini), in sella al cavallo di Mamma Rai nasce un’altra maggioranza. Pds, Ppi e la Lega di Umberto Bossi votano la proposta della Pivetti, che esautora la commissione Cultura di Vittorio Sgarbi e trasforma l’Aula di Montecitorio in un ring. Forza Italia e An sono in minoranza.
Gianfranco Fini invita i suoi a fare il guardiani della rivoluzione del Cavaliere. «Gol-pe, gol-pe, gol-pe», urlano dai banchi di An. «Non partecipo a una votazione che fa nascere una nuova maggioranza che calpesta le regole», sbraita Ignazio La Russa. La Pivetti è un bersaglio umano. Il ccd Ciocchetti le indirizza per posta prioritaria, scandendolo, un comprensibilissimo «ma vedi d’anna’ affanculo» a cui forzisti e finiani tributano lunghi applausi. Fa ancora meglio Gian Piero Broglia, pasdaran berlusconiano. «Sta zitta, buffona». E ancora: «Qua dentro c’è il primo tangentista della Seconda repubblica. Si chiama Umberto Bossi». Poco più tardi Sgarbi invocherà per la Pivetti «una perizia psichiatrica», da effettuarsi - testualmente - su «quel cervello completamente vuoto». Beccandosi in cambio due libri, quelli che il comunista Nappi gli tira in testa nelle stanze della commissione Cultura.
Dietro la rissa reale, degna dei giganti del wrestling che le tv del Biscione trasmettono ogni domenica mattina prima delle «bombe» pallonare dell’indimenticato Maurizio Mosca, c’è una sola verità. Bossi ha tradito, Berlusconi non ha più la maggioranza.
L’Umbertone, però, ha un problema interno. Una parte dei suoi, «colombe» come oggi lo sono nel giro dei finiani che fa capo alla ditta «Moffa, Viespoli&co.», vuole evitare la rottura con Berlusconi. Il loro leader è Bobo Maroni, titolare del Viminale. Che finisce sotto processo accusato dai falchi in camicia verde, capitanati da Francesco Speroni, che fanno quadrato attorno al Senatur: «Berlusconi sta cercando di comprare i nostri parlamentari. Ma noi stiamo con Umberto». Lo stesso Umberto che la sera stessa riceve a casa sua, nella periferia romana, Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione. L’accordo a tre per mandare a casa il Cavaliere di Arcore è sul tavolo. Insieme - nell’ordine - a due scatolette di sardine, pan carré, coca cola e birra in lattina, il menù che un Senatur con frigo vuoto sottopone al palato degli increduli commensali. Le mozioni di sfiducia sono pronte. La crisi di governo è aperta. Al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro ha già avviato un giro di pre-consultazioni istituzionali. Sono i giorni in cui finisce sui giornali la leggenda della chiamata che parte dal Colle e arriva negli uffici della Procura di Milano. «Se dovete fare qualcosa, fate presto». Dall’altro capo del telefono c’è Francesco Saverio Borrelli. Berlusconi è nell’angolo. Tenta una controspallata di piazza ma i suoi «Club della libertà», nel corteo di Milano, non vanno oltre una decina di migliaia di effettivi. E si arriva al dibattito alla Camera. La penultima stazione del calvario del Berlusconi I. È il 21 dicembre.
Alle 14, quando inizia la diretta televisiva da Montecitorio, il Cavaliere prende posto tra Maroni e Pinuccio Tatarella. Davanti a sé ha qualche decina di cartelle che leggerà in ventisei minuti contati e un bouquet di citazioni che comprende Jacques Maritain e Abramo Lincoln, don Sturzo e Pietro Calamandrei, Umberto Terracini e Ugo La Malfa. Il senso è uno solo: «Bossi è un traditore», impegnato (ma questo passaggio del testo non verrà mai letto) «in un furto con scasso per mere ambizioni di potere». La mozione di sfiducia della Lega? «Uno schiaffo alle regole e una clamorosa offesa al buonsenso e alla fiducia dei cittadini», e ancora «una truffa ai danni degli elettori», e quindi «una clamorosa violazione della Costituzione», «un messaggio devastante per la democrazia», come dire - e qui il pathos del premier raggiunge vette da Mortirolo - «care elettrici, cari elettori, le elezioni non contano un bel niente». È Berlsconi che parla. Ma sembra l’Ezechiele del passo biblico «25, 17» che Tarantino mette in bocca a Samuel Jackson in Pulp fiction («E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno»). «Grande rapina», dice Silvio. «Grande scippo», insiste Silvio. «Ricettazione», «autentica truffa», accusa Silvio. Fini lo sostiene come il più fedele degli scudieri. «Oggi - scandisce il leader di An nel suo intervento - non finisce la Prima Repubblica. Oggi finisce la Lega».
Le colombe di Maroni, però, hanno capitolato. Il Carroccio, che tradisce in blocco, ha la faccia del Bossi che vira la mano sinistra sull’avambraccio destro e che, guardando Fini, urla: «Tié». Il vecchio leghista Luigi Rossi, 84 primavere alle spalle, scavalca a destra (o a sinistra?) il Senatur. È lui a opporre al leader di An l’intervento più breve della storia del Parlamento. Una parola: «Vaffanculo». Mario Landolfi, finiano, risponde con due, di parole: «Taci, cadavere». Francesco Storace sale a quattro: «Rientra nel tuo sarcofago». Tutto inutile. Le dimissioni di Berlusconi sono già decise. L’appuntamento col Capo dello Stato è fissato per ventiquatt’ore dopo.
In omaggio all’adagio christiano (nel senso di Agatha) secondo cui «nella mia fine è il mio principio», «Silvio» prepara una videocassetta. Con una videocassetta, trasmessa dal Tg4 a gennaio, era sceso in campo. Con una videocassetta, inviata a tutte le televisioni a dicembre, saluta gli italiani chiedendo loro di scendere in piazza contro «il tradimento».
Nel Transatlantico di Montecitorio si discute del «dopo». L’opzione Dini, che si materializzerà a inizio anno, non s’intravede neanche nei radar. Al netto della proposta del Pds («Serve un Ciampi bis», mette a verbale D’Alema), l’ipotesi è una sola, un «governo del Presidente». I nomi, invece, sono due: Carlo Scognamiglio, presidente del Senato. O Francesco Cossiga. Quest’ultimo si fa organizzare un incontro con Fini.
L’appuntamento è a Palazzo Madama, nello studio del vicepresidente Romano Misserville, un post-missino che anni dopo avrebbe avuto il suo quarto d’ora di celebrità nel governo D’Alema bis. «Caro Gianfranco», scandisce l’ex capo dello Stato, «io non mi presto a formare alcun governo del ribaltone. Vorrei però sapere se da parte vostra c’è la disponibilità ad appoggiare un esecutivo da me presieduto che conduca alle elezioni». Fini, che pure ha un grande debito di riconoscenza nei confronti del Picconatore, scuote la testa: «Caro presidente, mi dispiace ma noi preferiamo Berlusconi. L’ho già detto a Mariotto Segni l’altro giorno: per Alleanza nazionale, Berlusconi innanzitutto, Berlusconi soprattutto». L’ex presidente della Repubblica non insiste più di tanto. Anche perché «Gianfranco» è irremovibile: «Per quanto mi riguarda, le uniche strade percorribili sono il Berlusconi bis o le urne. Ieri ho detto alla Camera che la Lega è finita. Mi sbagliavo. È Bossi che è finito. Con lui io e Silvio non prenderemo più neanche un caffè».
Mentre Fini e Cossiga sono ancora a colloquio, Papa Wojtyla sta scrivendo una lettera a François Mitterrand per chiedergli di «tornare alla fede», Boris Eltsin è alle prese con le polemiche per i raid aerei su Grozny, Alberto Tomba sta dominando lo slalom gigante dell’Alta Badia e il pentito della ’ndrangheta Cesare Polifroni sta sostenendo di fronte ai magistrati che Riina voleva uccidere Claudio Martelli. Nel frattempo c’è quella macchina, che marcia spedita verso il Quirinale. A bordo ci sono Berlusconi e le sue dimissioni. In testa, il Cavaliere, ha molti pensieri. Uno su tutti : «Si è persa una grande occasione. È come se una squadra avesse comprato un campione da trenta goal l’anno e poi gli arbitri gli si fossero accaniti contro, guardandolo in cagnesco durante ogni partita e fischiandogli sempre il fallo contro. Allora anche la squadra l’ha abbandonato. A me è successo questo». Silvio bomber, come Van Basten. Silvio e la fedeltà di Fini. Silvio e il tradimento di Bossi, la fine di un amore perso che si sarebbe poi ritrovato, anni dopo. Come nei versi di Mariano Apicella a cui spesso lo chansonnier di Arcore ha prestato la sua voce. Ma se adesso ancora lo vuoi / per ritrovar l’amore basta poco lo sai / per ritornare a vivere come prima tu ed io / e per cancellare questo falso addio.