ANDREA BONANNI, la Repubblica Affari&finanza 15/11/2010, 15 novembre 2010
EUROZONA, LA SINDROME IRLANDESE
Le parole sono pietre. E le parole di Angela Merkel hanno rischiato di far sprofondare Irlanda, Portogallo, Spagna e perfino l’Italia in una nuova crisi del debito sovrano. Mandando in fumo mesi di sforzi per creare una rete di sicurezza attorno all’euro, che non a caso la settimana scorsa ha raggiunto uno dei suoi minimi storici rispetto al dollaro e alle altre valute.
La storia di questo nuovo psicodramma europeo comincia il 18 ottobre, nella stazione balneare di Deauville, dove Merkel e Sarkozy si incontrano per un vertice tripartito con Putin.A margine della riunione, tedeschi e francesi raggiungono un’intesa sulla nuova architettura finanziaria, che dovrà essere approvata al prossimo consiglio europeo del 28 ottobre. La Francia accetta la richiesta tedesca di modificare i Trattati per rendere possibile il salvataggio finanziario di un Paese dell’unione monetaria in difficoltà (ipotesi esplicitamente vietata dai trattati attuali).
In cambio, la Germania si piega alla domanda francese di rendere permanente il meccanismo collettivo di rifinanziamento del debito degli stati membri che siano sotto attacco dei mercati. Quello attuale, varato in tutta fretta a giugno e basato sull’emissione di eurobond garantiti dai governi, dalla Commissione e dal Fondo Monetario Internazionale, scadrà tra tre anni.
Il compromesso francotedesco, come al solito, riesce ad imporsi al vertice del 28 ottobre, nonostante i mugugni di molti governi e le proteste esplicite del ministro Frattini. L’idea di rendere permanente la rete di salvataggio stesa attorno ai Paesi dell’euro ha proprio l’obiettivo di evitare attacchi speculativi che mandino alle stelle gli interessi sui bond rendendo impossibile il risanamento finanziario dei governi più indebitati, come è già avvenuto a primavera per la Grecia.
Naturalmente, la concessione dei finanziamenti del fondo di stabilità è «strettamente condizionale»: per ottenere il denaro, i Paesi sotto attacco devono dimostrare di aver varato manovre correttive draconiane, approvate da Bruxelles e in grado di risanare seriamente i conti pubblici.
Ma alla Merkel questo non basta. La cancelliera, che si prepara ad affrontare una difficile tornata elettorale, deve dimostrare alla propria opinione pubblica che i contribuenti tedeschi non saranno chiamati a ripianare i debiti irresponsabilmente accumulati dalle «cicale» dei Paesi periferici: Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e magari anche l’Italia.
Così, nel comunicato finale del vertice, la Cancelliera insiste perché sia inserita una frase secondo cui anche gli investitori privati dovranno sopportare una parte degli oneri del salvataggio. In altre parole, il nuovo sistema, concepito proprio per evitare speculazioni sulle ipotesi di default del debito sovrano dei Paesi europei, dovrebbe prevedere anche meccanismi che regolino una ristrutturazione del debito.
Come fanno subito notare sia il presidente della BCE, Trichet, sia il leader dell’eurogruppo, Jean Claude Juncker, si tratta di una evidente contraddizione in termini. Non si può annunciare la creazione di una rete di sicurezza e allo stesso tempo comunicare che essa potrebbe anche essere tolta all’ultimo minuto. «Il meccanismo di ristrutturazione del debito proposto dalla Germania rischia di scatenare incertezze e speculazioni finanziarie, cioè l’esatto contrario dell’obiettivo che ci si era prefissi», avverte Lorenzo Bini Smaghi, autorevole membro del board della Banca Centrale Europea.
Ma la Merkel non intende ragione. E nelle sue dichiarazioni rincara la dose. «Siamo di fronte ad un conflitto tra gli interessi del mondo finanziario e quelli dei politici. Non possiamo continuare a dire ai nostri elettori che devono essere i contribuenti a farsi carico di certi rischi al posto di coloro che su questi rischi fanno un sacco di soldi», ha dichiarato ancora recentemente arrivando a Seul per il G20.
Il governo tedesco è compatto su questa linea. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, si incarica di rimbeccare Trichet e la Banca Centrale Europea, secondo cui solo l’evocazione di una ipotesi di default avrebbe rischiato di scatenare i mercati: «Non condivido l’opinione che i mercati saranno allarmati. Secondo me i mercati hanno da tempo valutato i rischi e li hanno integrati nei loro apprezzamenti dei bond». Perfino la ministra francese dell’economia Christine Lagarde si schiera sulle posizioni tedesche: «Tutti gli investitori devono partecipare ai profitti e alle perdite dei loro investimenti», dichiara serafica.
I risultati di questa offensiva mediatica non si fanno attendere. I mercati interpretano le frasi sulla responsabilità degli investitori come una rinuncia alle garanzia paneuropea sui debiti sovrani. La possibilità di spingere in default un Paese dell’euro apre straordinarie opportunità speculative.
Nel giro di pochi giorni gli spread sui titoli di stato irlandesi e portoghesi, i due Paesi con i conti più a rischio assieme alla Grecia, raggiungono livelli record, superiori a quelli registrati al culmine della crisi di primaveraestate. Anche i rendimenti richiesti per i bond spagnoli e quelli italiani cominciano a salire. Dall’oggi all’indomani l’Irlanda si trova con l’acqua alla gola, con tassi che superano l’otto per cento, e l’ipotesi che Dublino debba ricorrere al finanziamento del fondo di stabilità diventa ogni minuto più concreta. «Questi costi di rifinanziamento non sono chiaramente sostenibili. C’è una forte possibilità che irlandesi e portoghesi debbano chiedere aiuto attraverso i canali ufficiali», dichiara Erik Nielsen, il capo economista di Goldman Sachs. Che aggiunge: «La confusione che arriva dall’Europa ha spinto i mercati a imporre una tassa aggiuntiva sui Paesi periferici».
Esiste naturalmente il sospetto che certe dichiarazioni da parte tedesca siano state interessate. I Bund tedeschi sono i primi a beneficiare, come bene rifugio sicuro, da un acuirsi della crisi dei debiti sovrani.
E il tracollo dell’euro sicuramente aiuta le esportazioni della Germania. Il primo ministro irlandese, Brian Cowen, lo lascia intendere in modo ellittico: «Non voglio dire che quanto è stato detto avesse lo scopo di creare ulteriori difficoltà. Preferisco pensare che certe dichiarazioni abbiano avuto conseguenze impreviste. Ma certo non sono state d’aiuto».
Di fronte alla minaccia di una nuova crisi forse irreparabile, francesi e tedeschi corrono tardivamente ai ripari. Da Seul, dove sono riuniti giovedì e venerdì scorsi per il G20, i ministri delle finanze di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna si riuniscono in emergenza e tirano fuori un comunicato che equivale ad una precipitosa marcia indietro. Il nuovo meccanismo di stabilizzazione permanente, scrivono, non entrerà in vigore prima della metà del 2013 e dunque «non avrà alcun impatto sulle disposizioni attuali». In altre parole: il meccanismo attualmente in vigore, e che resterà in vigore fino al 2013, non prevede ipotesi di ristrutturazione del debito né di coinvolgimento del settore privato.
Per quanto riguarda le emissioni che avverranno dopo il 2013, «il ruolo del settore privato potrebbe riguardare un range di differenti possibilità, come un impegno volontario di investitori istituzionali a sostenere le esposizioni, un impegno dei prestatori privati a rinegoziare i debiti esistenti o clausole di azioni collettive nelle future emissioni di bond da parte degli Stati membri della zona euro».
Dopo questa precisazione, i mercati hanno dato segnali di distensione. I tassi sui debiti più a rischio cominciano a scendere e l’euro smette di scivolare rispetto al dollaro.
Ma potrebbe essere ormai troppo tardi. Resta da capire infatti se l’ennesima marcia indietro tedesca, dopo le esitazioni della Merkel che in primavera hanno aggravato la crisi greca fino quasi a spingere Atene sull’orlo della bancarotta, riuscirà ad evitare che Irlanda e Portogallo debbano fare ricorso al fondo di stabilizzazione creato l’estate scorsa, e rimasto finora inutilizzato.
Se questo succederà, comunque, saranno proprio i contribuenti europei a dover garantire i debiti sovrani di Dublino e Lisbona, come già hanno fatto con quello di Atene. E il risultato sarà esattamente l’opposto di quello che Angela Merkel si era proposta con le sue sparate sulle responsabilità del settore privato.