Cristiana Mangani, Il Messaggero 13/11/2010, 13 novembre 2010
DELITTO DI SIMONETTA, IL PIANTO DI RANIERO
Dichiarazioni scarne, tanti «non so», «che c’è di male?», «non ricordo». Quello che resterà, però, dell’interrogatorio di Raniero Busco, il primo da imputato per l’omicidio della sua ex fidanzata Simonetta Cesaroni, è il pianto a dirotto nel quale si è liberato non appena ha lasciato l’aula.
Lontano dalla folla, tra i suoi amici e i familiari. Non sono serviti a molto gli occhiali scuri indossati come uno schermo per proteggersi dalla curiosità. Le lacrime sono scese senza che lui riuscesse a fermarle, mostrando tutta la sua impotenza e forse anche i suoi limiti personali e caratteriali. Sì, perché, l’interrogatorio di Raniero non ha fatto chiarezza, non ha aperto varchi nella verità. Venti anni dopo c’è poco da ricordare. E il pm Ilaria Calò è sembrata molto abile nel metterlo all’angolo puntando più che alle prove (sempre meno evidenti in questo processo) alla personalità dell’imputato, al suo carattere tendente alla rissa e al litigio. «Non parla più con suo fratello e suo cognata - ha insistito l’accusa - come mai?». «E con i suoi vicini perché è finito alle mani?». E ancora: «Si è reso conto che dando i nomi di alcuni suoi amici agli investigatori li ha messi in difficoltà, al punto che il giorno dopo gli è stato fatto l’esame del Dna?». Domande insidiose ma anche basate su fatti concreti, perché Busco la voglia di menare le mani l’ha manifestata più volte.
Nell’aula bunker di Rebibbia, però, si sta discutendo se sia stato lui a uccidere Simonetta Cesaroni e se quanto trovato dalle infinite indagini possa bastare a dimostrarlo. E gli elementi continuano a non emergere. Raniero, a tratti, appare disarmante. «Venni portato due volte in Questura - afferma - la notte dopo l’omicidio e il pomeriggio. Mi misero davanti le foto del cadavere, mi schiaffeggiarono». «Perché non denunciò l’episodio?», chiedono gli avvocati di parte civile Federica Mondani e Massimo Lauro. «Perché pensai e mi resi conto - è la sua risposta - che stavano cercando un assassino e che quella fosse la prassi». Riguardo all’alibi e a quanto disse in quelle prime ore, sottolinea che il verbale non venne mai fatto. «Non c’è - dice - non esiste. Non mi verbalizzarono e io non so perché. Avevo vent’anni, che ne sapevo?». Si passa a parlare dell’alibi, alle contraddizioni dei suoi racconti, ai testimoni che hanno riferito particolari in sua difesa, poi smentiti dalle intercettazioni.
Il pm vuole sapere se i rapporti con Simonetta fossero particolari, umilianti o violenti, e cita la lettera che la ragazza aveva scritto per sfogarsi di quel rapporto nel quale sentiva poco amore. Ma Busco non ha mai fatto misteri: «Lei era più legata a me di quanto non lo fossi io». E ieri ha ripetuto: « Non abbiamo mai litigato e i nostri rapporti erano normalissimi. Dove Simonetta lavorasse, poi, non l’ho mai saputo e non so perché qualcuno dice il contrario». L’avvocato Lucio Molinaro che assiste la mamma della vittima da sempre, insiste affinché confessi. «Perché non dice le cose come sono andate realmente?». Si aspettava un’altra verità sia dall’imputato che dall’ex datore di lavoro, Salvatore Volponi, e dichiara: «Stanno mentendo tutti e due».
Nel corso dell’udienza la presidente della Corte, Evelina Canale, fa a Raniero la domanda sulla quale poggia la principale accusa: «Ha mai dato un morso a Simonetta?». E lui, sorpreso: «Assolutamente no. Avevamo rapporti sessuali normalissimi. Mi sembra che lei prendesse la pillola, o almeno così mi pare mi abbia detto. Ci vedevamo nel fine settimana, poi ci sentivamo per telefono, non ricordo se tutti i giorni. E se è vero che ha ricevuto una telefonata quel 7 agosto, non sono stato io a chiamarla». Il processo riprenderà il 17 novembre con l’esame dei testimoni della difesa, poi si passerà alle discussioni finali.