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 2010  novembre 12 Venerdì calendario

MAR MEDITERRANEO VIGILATO SPECIALE

C’ è un sorvegliato specia­le annidato tra l’Europa, l’Africa e il Medio Orien­te. Un soggetto che sotto le appa­renze bonarie di specchio d’acqua propizio ai commerci, agli scambi, al diporto e alle vacanze cela un’in­dole malandrina e un carattere biz­zoso pronto ad esplodere con un terremoto, un’eruzione, un catacli­sma, uno tsunami apocalittico. Co­me non bastasse, nei suoi abissi prossimi alle coste italiane nascon­de un gigantesco vulcano sommer­so che sembra una bomba che at­tenda solo l’innesco.

Si chiama Mediterraneo questa mi­naccia che incuneata come una spada di Damocle tra tre continenti. Sì, Mediterraneo, il ma­re di casa nostra, presenza familiare ammiccante e sor­niona per molti, ma non per la comunità scientifica interna­zionale e quella ita­liana in particolare che hanno impara­to a diffidarne, tanto che 260 stazioni di rilevamento ne spia­no istante per istante ogni mossa ed ogni respiro. Non si sa mai, que­sto mare così placido, che diresti in­capace di provocare gli sfracelli al­trove generati da un uragano o da una tempesta tropicale, è in realtà propenso ai peggiori colpi di testa. Lo dimostrano i 250 tsunami degli ultimi 4mila anni, alcuni dagli im­patti devastanti per le civiltà co­stiere. Tsunami che una settantina di volte hanno toccato la nostra pe­nisola, e di quello di Messina del 1908 ancora rimangono tracce ma­nifeste.

La dimostra, infine, la tormentata vicenda storica di un bacino di due milioni e mezzo di chilometri qua­drati che si è formato, si è chiuso, si è prosciugato e poi riaperto fino ad assumere la connotazione odierna. Oggi, poi, a destare allarme tra i geo­logi è l’instabilità denunciata da quell’enorme vulcano nascosto nel Tirreno meridionale, non lungi dal­le Eolie, il vulcano Marsili scoperto un’ottantina di anni fa e diventato di recente oggetto di una serie di progetti strategici del Cnr. Se Mar­sili dovesse esplodere o collassare – temono i ricercatori – si innesche­rebbero maremoti catastrofici. Mar­sili è ora un sorvegliato super spe­ciale nel contesto di un mare con­trollato palmo a palmo.

Il fatto è che il Mediterraneo, figlio della deriva dei continenti nati dal­la primigenia Pangea e formatosi tra i 60 e i 70 milioni di anni fa, in­carna il ruolo di emblema dei pe­renni spostamenti della crosta ter­restre. Nulla infatti è eterno e im­mutabile, neppure un mare. Cin­que milioni di anni fa la chiusura di quello che è oggi lo stretto di Gibil­terra aveva portato al prosciuga­mento dell’immensa area occupa­ta dalle acque e so­lo qualche centi­naio di migliaia di anni dopo, nel Plio­cene, i movimenti delle placche conti­nentali riaprirono la porta verso l’Atlan­tico. L’acqua, irrom­pendo nel bacino in secca, raggiunse li­velli inusitati, anco­ra 125 mila anni fa più alti di sette me­tri rispetto ai valori attuali.

Il Mediterraneo – modesto specchio d’acqua di un’area periferica del pianeta – ha tuttavia inciso fin dal­l’inizio sulle dinamiche della vita sulla Terra. Impossibile? Basterebbe chiederlo, se mai fosse strada pra­ticabile, all’uomo di Neanderthal la cui fine traumatica, che pure ha la­sciato spazio all’uomo moderno, sa­rebbe imputabile ad un cataclisma registrato 40 mila anni addietro in Campania, quando saltò letteral­mente in aria la zona dei Campi Fle­grei, una supereruzione che modi­ficò profondamente il clima globa­le perché la colossale immissione di zolfo nell’atmosfera abbassò in maniera significativa le temperatu­re medie sconvolgendo delicati e­quilibri biologici. Al confronto l’e­ruzione di Santorini (3.600 anni fa) riuscì ad accentuare i rigori inver­nali solo per alcuni decenni, ma lo tsunami che se seguì provocò la fi­ne della civiltà minoica a Creta.

È la lezione del passato, dunque, che induce a fare di questo mare un soggetto da tener d’occhio senza di­strazioni. Ne ha ben spiegato i mo­tivi la mostra «Mediterraneo dina­mico » che l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha allestito a Genova in occasione del Festival della scienza. Un percorso iniziato con uno sguardo all’evolu­zione del mare negli ultimi 200 mi­la anni per poi affrontare anche le problematiche scientifiche legate al Marsili, il più grande – anche se il meno noto, perché invisibile – vul­cano d’Europa, settanta chilometri di lunghezza per trenta di larghez­za, un monte che si innalza per tre­mila metri rispetto al fondale tirre­nico, con la vetta a 450 metri di profondità sotto il livello marino, u­na sessantina di miglia ad ovest del­la costa calabrese. Marsili, che deve il nome allo scien­ziato italiano Luigi Ferdinando Mar­sili, è un vulcano attivo inserito ai primi posti della lista dei più peri­colosi. Le emissioni di gas sono fre­quenti e sui fianchi della montagna si nota l’insorgenza di numerosi ap­parati vulcanici satelliti. Ma non è questo a preoccupare gli studiosi dei terremoti. Laggiù nel Tirreno meridionale questo fratello sotto­marino dell’Etna e dello Stromboli si caratterizza per i suoi pendii e­stremamente ripidi, e tracce di col­lassi di materiale sono state rileva­te. Che accadrebbe se franasse una intera parete? «L’improvvisa cadu­ta di una notevole massa di mate­riale, il cedimento di milioni di metri cubi di roccia – avverte il sismologo Enzo Boschi – possono generare un po­tente tsunami, un’onda d’urto che si ripercuo­terebbe sulle coste della Calabria, della Campania e della Si­cilia ». Disastrose le conseguenze, com’è facile imma­ginare. Boschi par­la di indizi precisi di rischio reale anche se non quantificabile. Se è impos­sibile fare previsioni temporali quel­lo che conta – aggiunge – è mettere in atto procedure continue di mo­nitoraggio.

A questo provvede il Cnr per mezzo del sistema cosiddetto multibeam, un sonar multifascio che irradia il fondo marino con on­de acustiche. Interpretando la loro riflessione si possono accertare mo­difiche alla morfologia della zona sotto esame. Dallo scorso mese di feb­braio la nave Urania dello stesso Cnr ha avviato una siste­matica campagna di studi sul vulcano accertandone l’e­strema instabilità, anche perché nella parte sommitale il Marsili è costituito da rocce di scarsa consistenza, inde­bolite per di più da fenomeni di alterazione idroter­male. Insomma, Marsili è come un ordigno che un giorno o l’altro può deflagrare. È di conforto il fatto che si trova nella condizione di sorve­gliato a vista, sempre che questo basti a spegnere la miccia (tradu­zione: ad allertare le popolazioni costiere) prima che il fuoco rag­giunga le polveri e una frana scate­ni il maremoto.