Irene Maria Scalise, la Repubblica 14/11/2010, 14 novembre 2010
Roma una vita da maratoneta. Dice non essersi mai sentito un centometrista. Di prediligere gli allenamenti lenti e la preparazione metodica
Roma una vita da maratoneta. Dice non essersi mai sentito un centometrista. Di prediligere gli allenamenti lenti e la preparazione metodica. Di ripetere i copioni sino allo sfinimento, parola per parola. È Fabrizio Gifuni, rappresentante della generazione di splendidi quarantenni che stanno rivoluzionando l´immagine del cinema e del teatro italiano. Alto, magro, mani grandi e un viso severo che però quando sorride rivela l´esistenza di un altro uomo, molto più fisico. È quello che ballando, saltando e allungandosi come un elastico si esibisce, in questi giorni, al teatro Valle di Roma deridendo ciò che definisce «L´io minchia». Gifuni "il serio" ha debuttato come Oreste nell´Elettra, è stato Mercuzio in Romeo e Giulietta e poi ancora Alcide De Gasperi, Paolo VI e Franco Basaglia. Così, dopo quasi vent´anni di carriera, sembra portarsi dietro una targa, quella dell´attore impegnato. Lui però rifiuta le definizioni. Si spettina i capelli, come volesse confondere le cose: «Mi piacerebbe vivere in tempi in cui un artista potesse parlare solo attraverso il proprio lavoro, perché questo dovrebbe bastare a un mestiere che non crea distinzioni tra quello che fai e quello che sei. Purtroppo esistono momenti di emergenza, come questo, in cui alcuni sentono il bisogno di esprimersi anche in altri spazi». Tanto accanimento forse gli deriva dal sangue misto: siciliano e pugliese. Il risultato è comunque un´urgenza, impossibile da rimandare. «Viviamo in un´epoca in cui il sentimento della paura e della precarietà si è fatto insostenibile. Sono tempi bui che non ci siamo scelti e che, soprattutto, non ci meritiamo». Però Gifuni ha una speranza: «Sono convinto che l´arte, oggi più che mai, possa svolgere un ruolo di grande importanza. Condividere la bellezza, in un momento in cui veniamo sommersi dal fango, provoca mutamenti silenziosi ma profondi». Gifuni vive a Roma dove, in una mattina ancora tiepida, si racconta in un caffè a pochi passi da Piazza Navona. È arrivato al teatro dopo un percorso tortuoso e una quasi laurea in giurisprudenza. Appena è salito sul palcoscenico, però, non ha più avuto ripensamenti: «L´aver rimandato la decisione definitiva dopo i vent´anni, e a cinque esami dalla laurea, è qualcosa che fa parte di me. Un mio modo di mettermi costantemente alla prova, creando continui ostacoli, per capire quanto desideri veramente una cosa». Nel teatro, dopo il diploma all´Accademia nazionale d´arte drammatica, esordisce nel 1993, con l´Elettra. Negli ultimi anni ha portato in scena - con Giuseppe Bertolucci - Na specie de cadavere lunghissimo (da testi di Pier Paolo Pasolini) e L´ingegner Gadda va alla guerra. Nel cinema debutta con una commedia: La bruttina stagionata. Poi vengono quasi trenta film, fra cui Così ridevano di Gianni Amelio, L´amore probabilmente ancora con Bertolucci, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, La ragazza del lago di Andrea Molaioli. Gifuni non rifiuta neppure la televisione, se di qualità, e veste gli ingombranti abiti di De Gasperi (con la Cavani), di Paolo VI e di Franco Basaglia. Tra un lavoro e l´altro non teme l´abisso. Gli inevitabili vuoti che accompagnano la vita di ogni attore. Allunga le gambe e sprofonda più comodo sulla sedia: «Credo che la paura di non farcela si sia consumata i primi anni e fortunatamente non sono un apprensivo sul lavoro, forse perché coltivo abbondantemente le mie ansie nella vita privata». Vive con lucidità anche una certa schizofrenia tra palcoscenico e set. Il cinema come irruenza e leggerezza: «C´è il personaggio e una storia che devi raccontare e io amo farlo cercando di sparire il più possibile dietro al ruolo che interpreto. È una forma di spaesamento mimetico». Il teatro, invece, come esperienza esistenziale: «È un esercizio più complesso. Dopo i primi anni di formazione ho scelto di lavorare quasi esclusivamente a progetti pensati fin dalle fondamenta; prima decido cosa voglio raccontare, poi scelgo i testi, quindi mi occupo della drammaturgia e infine arrivo all´interpretazione». Anche i tempi di preparazione sono diversi: «Ci ho messo quattro anni per Gadda e altrettanti per Pasolini. Al cinema non ci si può arrivare con lo stesso metodo perché è tutto aleatorio, non si capisce sino all´ultimo quando parte un film, se ci sono i soldi o se non ci sono». Ama il mestiere di attore di un amore incondizionato, ma non si accontenta. E proprio per le sue battaglie fuori dal palcoscenico, e soprattutto per aver scosso la platea del Partito democratico usando l´espressione «compagne e compagni», è finito quest´estate su tutti i giornali. Il video di quel suo discorso è rimbalzato per giorni su You Tube. Ripensando a quei momenti, e alla solita targa di attore impegnato che ritorna, ironizza: «Quelle due parole erano all´interno di un ragionamento di otto minuti, che non so quanti abbiano realmente ascoltato, e che hanno prodotto in alcuni un riflesso pavloviano». Ma non vuole fare passi indietro: «Impegno o disimpegno sono tratti identitari di un essere umano, si tratta semplicemente di decidere come interpretare la propria vita, attraverso gesti, parole e azioni». Tira fuori un blocco di appunti: «Forse c´è qualcosa che volevo dire... Ma no, è semplicemente che uno spesso nelle interviste è chiamato a descriversi e si ripetono sempre le stesse cose... Io poi sono allergico all´epica del racconto pubblico sulle proprie origini, sulle difficoltà incontrate». Ride all´improvviso. Ecco che riappare l´inaspettata seconda anima di Gifuni, quella meno seria. Sarà il segno zodiacale del cancro, ma c´è un altro uomo. In questi giorni al teatro Valle di Roma è impegnato in un esercizio da mattatore su Pasolini e Gadda, Dante e Pavese. Quest´ultimo anche con alcuni momenti cantati. «Per Gadda e Pasolini si è trattato di un lavoro lungo, ho scelto personalmente ogni parola. Con Giuseppe Bertolucci volevamo fare un punto su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Ne è venuta fuori una sorta di mappa cromosomica dell´Italia. Ricostruita attraverso lo sguardo di due scrittori che si sono conquistati la possibilità di esprimere un giudizio su quello che li circondava solo dopo avere fatto a pezzi se stessi. Merce rara in questo paese». E quei conti con se stesso, lui sostiene di farli in gran parte grazie al mestiere di attore: «Il nostro è un lavoro che ti costringe a un continuo slittamento di emozioni tra pubblico e privato. Negli spettacoli di questi giorni, per esempio, ho scelto temi e parole da cui sentirmi interamente rappresentato e con cui entrare in dialogo e ascolto». Si alza e sembra ancora più lungo, forse perché è molto magro. Il rapporto con il suo fisico lo vive bene anche grazie al lavoro. Cambiare continuamente pelle non lo affatica, anzi. «Diciamo che non mi sarei mai immaginato di interpretare un Papa e il primo istinto, quando mi arrivò la proposta, fu di non prenderla in considerazione. Ma siccome non esistono personaggi in astratto - "i papi" - ma solo persone, ci è voluto poco per scoprire un uomo straordinariamente ricco e segreto. Paolo VI mi piaceva perché non è stato un Papa "mediatico", ma un Papa che traeva forza dai propri dubbi». Il personaggio di Basaglia, e il conseguente avvicinamento al difficile territorio della follia, lo ha inevitabilmente coinvolto. Ma a modo suo: «Basaglia è stato soprattutto un grande scienziato che ha restituito un volto, un´identità e diritti a persone, ridotte a cose, genericamente etichettate come malate di mente. Proprio Basaglia diceva che nel rapporto con il terapeuta non è solo il paziente a essere messo in discussione dal primo ma anche l´inverso. E in questo rapporto psicodinamico c´è qualcosa di molto vicino alla pratica attoriale». Fabrizio Gifuni è stato anche sul set di Hannibal di Ridley Scott: «Divertente come fare un giro al luna park». Ha partecipato, assieme a Maya Sansa, Alessio Boni e Luigi Lo Cascio, al pluripremiato La meglio gioventù. Un´esperienza che sintetizza in una frase: «È stato un momento irripetibile. Molti, fra quanti hanno preso parte al film, erano già amici e avevano un rapporto consolidato che Marco Tullio Giordana è riuscito a mettere insieme con immenso talento». Spesso lavora anche con la moglie Sonia Bergamasco: «Abbiamo iniziato recitando insieme e forse anche per questo non abbiamo mai avuto problemi a farlo. In più non siamo due nature competitive. Il solo ostacolo che abbiamo non è tra di noi ma di natura organizzativa e, con due bambine piccole, abbiamo scelto di non stare mai fuori casa contemporaneamente». Riguardo al futuro, suo e delle sue figlie, ha tanti timori: «Ma non credo che riuscirei ad andare via da questo Paese, neanche in un momento come questo. Nonostante tutto credo sia possibile continuare a lavorare e a guardare alla cultura e all´arte - insieme alla scuola e alla ricerca scientifica - come parte del tessuto connettivo di una società più sana».