Guido Rampoldi, la Repubblica 14/11/2010, 14 novembre 2010
Dicono che l´abbiano liberata perché ormai non fa più paura. Che i quindici anni trascorsi da reclusa nella villa più sorvegliata di Rangoon abbiano infiacchito le sue certezze e minato la sua salute
Dicono che l´abbiano liberata perché ormai non fa più paura. Che i quindici anni trascorsi da reclusa nella villa più sorvegliata di Rangoon abbiano infiacchito le sue certezze e minato la sua salute. E soprattutto che la debolezza economica delle democrazie occidentali, unita al potere crescente dei capitalismi autoritari d´Asia, abbiano svalutato il valore che lei incarna, la lotta più nobile, la tenace lotta per la libertà. Ma se la giunta birmana e i suoi influentissimi astrologi non considerano più Aung San Suu Kyi un pericolo, potrebbero scoprire che le stelle mentono. Nel lontano 1990, quando i generali le permisero di concorrere alle elezioni nella certezza che le avrebbe sicuramente perse (anche allora era agli arresti domiciliari), il suo partito conquistò i tre quarti dei seggi. Mai sottovalutare la forza devastante di quel sorriso gentile che ieri è riapparso alla sua gente, e a centinaia di cronisti, oltre i cancelli della villa-prigione non più assediata dalla polizia. E mai prendere sul serio quell´essenzialismo che racconta il desiderio di libertà come un portato della cultura occidentale, estraneo a società che si vorrebbe tendenzialmente e felicemente sottomesse a qualsiasi autorità, anche la più occhiuta. Con tutto questo, la mossa dei generali birmani non è affatto ingenua. Un´oligarchia militare padrona di immense risorse naturali non poteva trovare miglior momento per fingersi umana e sollecitare la comprensione della comunità internazionale; per suggerire il ritorno a quel constructive engagement, «coinvolgimento costruttivo», che è stato per lustri l´alibi dietro il quale tutti, in testa europei e americani, facevano lucrosi affari con la giunta. E poi, non si è trattato neppure di una liberazione, ma semplicemente del giungere a scadenza di una condanna, l´ennesima, agli arresti domiciliari. I generali avrebbero potuto rinnovare la pena ricorrendo ad un altro pretesto. Ma questo certo non avrebbe giovato all´immagine di un regime appena uscito da elezioni universalmente giudicate una farsa. Il non intervento rappresentava il male minore. Scambiarlo per un gesto di buona volontà e sperare di farne il viatico ad una transizione forse aiuterà gli affari ma difficilmente la causa della libertà. Però anche la dittatura birmana, così come ormai la gran parte delle dittature, è costretta dalla storia a frenare le proprie pulsioni naturali, almeno quando è sotto i riflettori dei media. Lontano dalle cineprese, nella giungla, conduce da lustri guerre ferocissime con entie che ostacolano le sue joint-ventures con compagnie internazionali, anche europee, per lo sfruttamento di risorse naturali. Ma quando non si sente in pericolo, si finge un regime non più brutale di altri. Chi scrive ricorda la reazione bizzarra dei quattro agenti in borghese che sorvegliavano l´abitazione di U Tin Oo, il collaboratore «storico» di Aung San Suu Kyi, ieri tra i primi a felicitarsi. Gli agenti sonnecchiavano in una macchina. Accortisi in ritardo che U Tin Oo stava per ricevere la visita di uno straniero, mi ringraziarono con i sorrisi più amichevoli perché accordai ad essi il tempo di fotografarmi, così come mi avevano chiesto gesticolando platealmente. Un´analoga finzione di fair-play potrebbe suggerire ai generali di ignorare l´irruenza con la quale Aung San Suu Kyi tornerà sulla scena pubblica già nelle prossime ore. Ma con lei non si può giocare a scacchi. In passato la sua lotta non violenta ha dimostrato le capacità di attrazione di una rivoluzione e la linearità di una pallottola, di una traiettoria non modificabile: «La Storia è dalla nostra parte, il tempo è dalla nostra parte», è la granitica certezza che ripete da vent´anni al suo popolo. Si deve dubitare che la libertà sia sempre il destino delle società umane, non si può dubitare che lo sia di Aung San Suu Kyi. Come sempre in questi casi è una tragedia – l´assassinio di suo padre, eroe della lotta per l´indipendenza – a formare un destino che altre successive tragedie non solo non hanno deviato, ma al contrario hanno consolidato nella percezione che lo vuole irrevocabile. Nel 1999 Aung San Suu Kyi dovette rinunciare ad accorrere al capezzale del marito, l´accademico britannico Michael Aris, che stava morendo in Gran Bretagna: se fosse espatriata la giunta le avrebbe impedito di tornare, condannandola così all´esilio. Oggi è la più rispettata icona internazionale della libertà, e certo non per aver vinto il Premio Nobel, che altri hanno ottenuto, incluso Kissinger. Parte del suo carisma è la grazia naturale, regale, in cui si sovrappongono figura esile e volontà titanica, femminilità e qualità di condottiero. Nel suo Paese molti la considerano una sorta di divinità materna, e in questo colgono l´unicità di quelle donne che quando una società collassa, così come è collassata la società birmana sotto l´oppressione di una dittatura tra le più corrotte del pianeta, rappresentano una sorta di nucleo biologico, primordiale, che non distoglie mai gli occhi dall´orizzonte, dal futuro.